Sta destando speranza il successo della raccolta di firme on line a sostegno del referendum per il dimezzamento dei tempi per ottenere la cittadinanza. Tuttavia, seppure alle urne vincesse il fronte per la cittadinanza, l’Italia rimarrebbe un paese razzista. Lo spiega con accuratezza un volume appena pubblicato da Anna Curcio, sociologa e militante, che studia da tempo le trasformazioni del lavoro produttivo e riproduttivo nel rapporto con la razza e il genere (tra le sue pubblicazioni, nel 2012 ha pubblicato per Manifestolibri La razza al lavoro).
Già dal titolo – L’Italia è un paese razzista (DeriveApprodi, pp. 144, euro 16) – il libro promette un corpo a corpo con il senso comune, le pratiche e le ideologie, comprese quelle ascrivibili a una parte di compatrioti che si dichiarano antirazzisti. Soprattutto, indica con marxiana energia l’urgenza di «riportare l’antirazzismo sui piedi».
Per questo ne scaturisce una lettura che sottrae il dibattito alla trappola che a suo tempo mise in piedi Benedetto Croce a proposito del fascismo – quando lo definì un «accidente dello Spirito» – che, a sua volta, s’era inserito sul medesimo dispositivo autoassolutorio scattato, alla fine del XIX secolo, immediatamente dopo le prime avventure coloniali.
Lo possiamo riassumere nella arcinota formula «italiani brava gente» che, non a caso, questo volume si promette di demistificare già con un avviso sulla fascetta di copertina.
Perché il razzismo non è una credenza da disimparare, come hanno sostenuto anche studiosi illustri, su tutti Renate Siebert, bensì un dispositivo congegnato come disciplinamento della forza lavoro, capace di declinarsi in vari modi, fino a essere, nella fase che stiamo vivendo, «ciò che rende possibile la gestione dei rapporti sociali nella crisi», come sottolinea Anna Curcio in fondo a un ragionamento che muove dalla collocazione dell’invenzione della razza già nei decenni della fondazione del modello di sviluppo capitalista con la sua strenua esigenza di gerarchizzare gli oppressi e naturalizzare le disuguaglianze.
Ne consegue che non può esserci capitalismo senza razzismo perché è la razzializzazione ad aver costruito storicamente le gerarchie sociali e a gestirle anche oggi ispirando non solo le politiche sociali e quelle migratorie ma perfino gli slanci umanitari e gli sforzi inclusivi riducendoli a macchine per la costruzione della vulnerabilità.
Curcio dipana una matassa che, dalla Bacon’s Rebellion (Virginia, 1676), in cui colloca «l’invenzione della razza», si svolge fino ai giorni nostri, dopo una specifica genealogia del razzismo italico, in cui la razzializzazione si mette al servizio delle «infrastrutture della violenza» coniate per la svolta neoliberista con aggiornamenti continui di quel management della razza che ha governato il modello di sviluppo nei suoi upgrade.
Saldamente inserito nel dibattito scientifico e accademico, con rimandi e piste precise (a partire da quella che conduce a Franz Fanon) per chi voglia seguirle, il libro si propone come strumento a disposizione della battaglia politica e delle vertenze sociali.
Una volta demistificato il concetto di razza, infatti, un approccio «culturista» al razzismo rivelerà tutti i suoi limiti. L’antirazzismo possibile sarà nell’insieme di saperi e pratiche in grado di interrompere la frammentazione sociale e rovesciare le gerarchie della razza come suggeriscono le lotte dei lavoratori della logistica.
In sintesi, l’Italia non è un Paese razzista perché siamo brutte persone ma perché è un paese capitalista. E questo tira in ballo tutti e tutto, anche quello che Curcio definisce antirazzismo umanitario che, seppure animato dalle migliori intenzioni, è partecipe alla costruzione di vulnerabilità.
L’antirazzismo dell’accoglienza, sostiene la sociologa, rappresenta la nuova forma di accumulazione capitalista che estrae valore sul doppio binario della definizione di una forza lavoro subordinata e dalla forza lavoro precaria tipica del Terzo Settore, entrambe ricattabili.
L’antirazzismo radicale dovrà invertire la rotta, spostare lo sguardo dai confini ai rapporti sociali.
Checchino Antonini, il manifesto, 19/10/2024