Mentre le telecamere cinesi in Cina sono la manifestazione dello Stato totalitario, quello della “sorveglianza”, le telecamere da noi sono l’impegno dello Stato per garantire la “sicurezza” dei propri cittadini. Così, nascosti dietro al paravento di indiscutibili campioni della democrazia, avviamo il controllo tecnologico di massa con l’uso della IA.
Il Giubileo a Roma potrebbe essere l’occasione che dà il via al controllo di massa anche in altre città d’Italia.
Simone Pieranni, grande conoscitore della società cinese e dei suoi meccanismi, svela l’inganno e ci invita a stare in allerta!
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Qualche anno fa i nostri media – e i nostri politici – fecero una scoperta: Pechino era dotata di una telecamera di sicurezza ogni tre abitanti. La notizia suscitò i consueti articoli e commenti sull’innegabile densità della sorveglianza cinese.
All’epoca si poteva notare un aspetto lessicale interessante: le telecamere di sicurezza cinesi, con cui l’amministrazione di Pechino per altro diceva di voler governare al meglio il traffico e la possibilità di diminuire i reati, erano sinonimo di «sorveglianza», cioè di uno Stato che tenta di sapere tutto dei propri cittadini, sia dei potenziali criminali, sia degli abitanti che non delinquono ma si muovono semplicemente sulla superficie cittadina. Ora Francesco Greco per conto del Comune di Roma e in un’intervista al Sole24Ore annuncia l’arrivo di 15mila telecamere e sistemi di Intelligenza artificiale. Ma la parola sorveglianza proprio non si vede, non si legge. Si parla di «sicurezza»: insomma queste telecamere non saranno un problema, ci aiuteranno a vivere in città più sicure con meno reati.
Ora, al di là della fattibilità di questo programma, di quanto effettivamente più telecamere significhino meno reati, di quanto tutto questo possa ledere o meno la nostra privacy, di quanto queste siano le risposte da dare a città in cui il degrado diventa una scritta su un muro e non la mancanza di spazi sociali, di trasporti pubblici, di luoghi dove si possano vivere le strade eccetera, quanto balza agli occhi è proprio la diversa prospettiva con cui si analizzano fenomeni molto simili.
Per dirla in breve e molto semplice: le telecamere cinesi in Cina sono sintomo di uno Stato totalitario; le telecamere da noi sono sintomo di uno Stato che si preoccupa della sicurezza dei propri cittadini. Ma questo non è l’unico elemento di «tecno orientalismo» presente in questa vicenda. Ricorderete il panico scaturito dalla constatazione che le telecamere cinesi erano utilizzate anche in Italia, anche presso uffici pubblici. Anche in questo caso tutti si preoccuparono di quanto le telecamere cinesi potessero essere l’occhio di Pechino sui nostri dati, sui nostri segreti nazionali. Se invece le telecamere sono di Leonardo, cioè un’azienda “patriottica”, ovviamente il problema non si pone.
Né si era posto il problema di fronte al fatto che le stesse telecamere cinesi, ad esempio, erano utilizzate da Israele per controllare i palestinesi. Anche in quel caso non si trattava di sorveglianza, ma di sicurezza. Ad esempio: nel 2021, l’azienda cinese Hivision aveva più di 54mila reti di telecamere in Israele, di cui più di 35mila nella sola Tel Aviv e tutto ciò faceva parte – come testimoniato da Darren Byler e Karissa Ketter su Made in China Journal – degli sforzi di Israele per valutare automaticamente il potenziale di minaccia dei palestinesi in tempo reale. Al di là di come si possano risolvere le problematiche legate alla sicurezza della nostra città, l’annuncio delle telecamere romane ancora una volta ci mette di fronte a una supposta superiorità occidentale nell’utilizzo di strumenti che sono a tutti gli effetti securitari e tendenzialmente repressivi e lesivi della privacy.
Greco al Sole24Ore ha detto che è necessario «evitare il rischio di una città orwelliana»: ce lo auguriamo perché non è che tifiamo autoritarismo, ma in questa frase c’è tutto il «tecno orientalismo» del nostro mondo. In Cina (ma in realtà in tutta l’Asia le idee di città si mescolano con un ingente utilizzo di Ai e telecamere) i governanti dispotici non sono capaci a garantire queste certezze alla privacy: non gli interessa, sono naturalmente tirannici, sono fatti così. E quindi in Asia – ma non solo lì – annunci identici a quelli del magistrato Greco a Roma, diventano immediatamente distopie, esempi di «tecno autoritarismo». Noi invece siamo il mondo democratico e non cadremo di certo in queste derive di cui accusiamo un po’ tutto il resto del pianeta. L’importante, verrebbe da pensare, è che in questo mondo sempre più protezionista non solo a livello economico ma anche a livello culturale, sociale e politico, a sorvegliare siano i «nostri», quelli di cui ci si può fidare almeno a parole, dando per scontata una leggenda di cui ci siamo convinti a tal punto da finire per classificarci il mondo, cioè la nostra supposta naturale predisposizione alla democrazia.
Simone Pieranni, il manifesto, 15 agosto 2024