Pace o miraggio? È la domanda di fronte al ritiro totale della guerriglia curda dalla Turchia e la ridefinizione della politica curda. Con l’annuncio ufficiale del ritiro completo delle forze del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) dal territorio turco verso il nord dell’Iraq, si chiude uno dei conflitti più lunghi e complessi del Medio Oriente.
La decisione, resa pubblica il 26 ottobre 2025 dalle montagne di Qandil, segna non solo la fine di oltre quarant’anni di guerra, ma anche l’inizio di una nuova fase nella ridefinizione della politica curda in Turchia e nella regione.
Nato nel 1978 come movimento di liberazione d’ispirazione marxista-leninista, il Pkk ha progressivamente trasformato la propria strategia, passando dalla lotta armata alla via politica e democratica. Nel comunicato letto a Qandil, il gruppo ha spiegato che il ritiro risponde alle decisioni del dodicesimo congresso e all’appello del suo leader incarcerato Abdullah Öcalan per «una società pacifica e democratica». Nelle immagini diffuse, venticinque combattenti – otto donne tra loro – attraversano il confine turco verso le aree difensive nel nord dell’Iraq.
I passaggi precedenti di questo processo sono noti: il cessate il fuoco del primo marzo, la decisione di sciogliere le strutture militari a maggio e la cerimonia simbolica di disarmo svoltasi a Suleymaniya a luglio. Nel nuovo comunicato, la realtà nata dalle ceneri del Pkk parla di «fine definitiva della strategia militare» e chiede leggi speciali per l’integrazione democratica, la libertà dei partiti curdi e un’amnistia specifica per i propri membri. «Non vogliamo solo un’amnistia generale – ha dichiarato il dirigente Sabri Ok – ma norme che garantiscano una reale partecipazione politica».
Sull’intero processo pesa però una lunga storia di sfiducia. Il precedente tentativo di pace del 2015 fallì nel sangue, con l’arresto di migliaia di attivisti, giornalisti e deputati del Partito democratico dei popoli (Hdp, poi costretto a sciogliersi). Molti temono che il governo di Recep Tayyip Erdogan possa utilizzare questo nuovo percorso per ottenere legittimità internazionale senza attuare vere riforme.
Ankara dal canto suo, definisce il ritiro «un passo concreto verso una Turchia senza terrorismo» e ha istituito una commissione parlamentare di 51 membri per elaborare un quadro legale al processo di pace. I media turchi parlano di un imminente incontro tra Erdogan e una delegazione del Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli (Dem, successore dell’Hdp), che in seguito si recherà sull’isola di Imrali per consultare Öcalan.
Gli attivisti curdi accolgono il processo con cautela. Finché non saranno garantite le libertà politiche e rimossi i vincoli imposti ai partiti curdi, dicono, «questa sarà una pace dall’alto, non una pace dal basso». Intanto, la società curda, stremata da decenni di conflitti, guarda con speranza alla possibilità di una nuova stagione politica.
Per molte donne curde, la transizione ha un doppio significato: la fine della guerra e l’inizio di una nuova battaglia per la parità nel campo politico. Le conseguenze del ritiro superano i confini turchi. Baghdad teme un aumento della presenza del Pkk nel nord dell’Iraq, Teheran guarda con sospetto alla crescente influenza dei curdi vicini a Öcalan in Iran occidentale, mentre in Siria le forze curde alleate del Pkk tentano di consolidare la propria posizione di fronte ad Ankara.
Secondo diversi analisti occidentali, se il processo di transizione verrà consolidato, potrebbe alterare gli equilibri di sicurezza lungo le frontiere siriane e irachene. Sul piano giuridico, il futuro di Abdullah Öcalan e la sorte dei combattenti disarmati rappresentano la prova più delicata. L’esperienza internazionale mostra che ogni transizione priva di leggi chiare e di un monitoraggio indipendente rischia di fallire.
Se Ankara approverà in tempi rapidi le norme su amnistia e integrazione e renderà la liberazione di Öcalan parte del processo di legittimazione politica, Qandil potrà trasformarsi da simbolo di guerra a simbolo di pace. In caso contrario, il rischio di un ritorno alla violenza rimane reale. In un Medio Oriente ancora prigioniero di guerre infinite, la scelta del Pkk di deporre le armi ricorda una verità semplice ma radicale: nessuno Stato può costruire la propria stabilità eliminando l’altro. La pace – come gridano le donne curde a Qandil – non nasce dalle armi, ma dall’uguaglianza e dalla giustizia.
il manifesto, 28 ottobre 2025
