Le tre dinamiche coloniali della violenza …di Meera Sabaratnam*

Lungi dall’essere un anacronismo, una sensibilità postcoloniale è indispensabile per comprendere le fondamenta strutturali e l’espressione violenta di ciò che sta accadendo in Palestina e in Israele. Ci sono tre dinamiche rilevanti da esaminare.

Quella centrale è che Israele si è configurato come un progetto coloniale d’insediamento che non può compiersi, perché non è in grado né di sterminare né di assimilare, né di espellere né di sottomettere in modo permanente la popolazione nativa che abita entro i confini da esso autoproclamati. È questa la struttura fondamentale all’interno della quali avvengono questi ripetuti episodi di violenza.
E questo nonostante una lunga occupazione militare, l’incarcerazione di massa e l’attuazione di politiche equivalenti all’apartheid, l’eccezionale militarizzazione e securitizzazione dello Stato e della società, gli ampi sforzi diplomatici e politici volti a delegittimare ogni obiezione, e così via. In questo senso, i livelli attuali di violenza non possono essere risolti né attraverso una spietata vittoria militare in uno Stato unitario, come accaduto in Sri Lanka, né tramite una spartizione, come avvenuto in Bosnia, né con una democrazia multietnica come quella del Sudafrica. Tutte le soluzioni politiche realistiche risultano di fatto precluse, mentre continua a essere perseguito con violenza il sogno coloniale eliminazionista.

Questa prima e centrale dinamica coloniale interna al territorio è resa possibile da una seconda struttura imperiale, inscritta nell’ordine internazionale. In questo caso, specifici stati di grande potere designano regioni lontane come centrali per i propri interessi e si arrogano il diritto di organizzarle di conseguenza, ignorando selettivamente altre norme e regole politiche che, invece, per se stessi cercherebbero di proteggere.
Lo stesso gruppo di Stati – Stati uniti, Regno unito e molte nazioni europee – che ha imposto no-fly zone e dure sanzioni economiche in Iraq e in Libia per la protezione dei civili, che ha protestato con forza e agito contro le violazioni del diritto internazionale da parte della Russia nell’invasione dell’Ucraina, non ha sanzionato in alcun modo concreto questi crimini di guerra ben documentati, continuando anzi a rifornire e sostenere Israele, salvo esprimere di tanto in tanto disagio di fronte ai crimini di guerra più evidenti. Senza questa cornice imperiale di tolleranza e sostegno, quel progetto coloniale non potrebbe essere tanto ambizioso e implacabile.

Le prime due dinamiche si intrecciano poi con un terzo elemento: l’ordinamento razzializzato della popolazione mondiale. La razzializzazione consiste in una gerarchia presunta di priorità e valore attribuita alle persone in base alla loro discendenza presunta, codificata attraverso tropi di avanzamento di civiltà e di sviluppo, specificità culturali e caratteristiche biologiche. In un mondo che si proclama impegnato nei diritti umani e nell’uguaglianza, è evidente che alcuni vengono considerati molto più umani di altri, o perlomeno che l’umanità di alcuni sia vista come una condizione contingente, non presunta.
In questo caso, la sistematica disumanizzazione razzializzata dei palestinesi è stata un elemento cronico e fondativo della loro oppressione. E questo è necessario al funzionamento delle prime due dinamiche. È francamente difficile immaginare che le cose che sono accadute a loro – compreso il vederli deliberatamente affamati sotto gli occhi del mondo, in tempo reale – potrebbero essere tollerate se fossero considerati bianchi. Mentre alcune forme di politica razzializzata sono divenute oggetto di forti contestazioni nell’ultimo secolo, altre continuano a modellare orientamenti e comportamenti.

Ovviamente, vi sono ulteriori strati, logiche e dinamiche da analizzare, tra cui il senso di debito morale avvertito dall’Europa verso Israele dopo l’Olocausto, i mutati equilibri geopolitici degli stati arabi e del Golfo, il complesso globale della sicurezza-industria della sorveglianza sviluppatosi dopo la «War on Terror» e il rapporto più ampio di questo conflitto con le lotte tra destra e sinistra nel Nord globale. Tuttavia, da un punto di vista analitico, un orientamento postcoloniale è indispensabile per comprendere in profondità come e perché tali schemi di violenza continuino a riprodursi nell’attuale ordine internazionale. Vorrei tanto che non fosse così

*Meera Sabaratnam, docente in relazioni internazionale all’Università di Oxford;

il manifesto, 28 agosto 2025

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *