Romanziere, poeta, saggista, drammaturgo, autore di testi autobiografici e di racconti per bambini: non c’è forma di scrittura che Ngugi wa Thiong’o non abbia praticato, con il talento innato per le parole di chi è cresciuto ascoltando le narrazioni degli anziani intorno al fuoco e con una cultura profonda, frutto della passione per lo studio che lo ha sempre accompagnato, fino dagli anni dell’infanzia in un piccolo villaggio del Kenya coloniale.
Molti, dunque, i possibili percorsi per muoversi all’interno di quest’opera sterminata, ma a chi volesse accostarsi a Ngugi tenendo insieme almeno alcuni dei fili tessuti dallo scrittore kenyota nell’arco della sua vita, forse la traccia migliore la può offrire un piccolo volume, Decolonizzare la mente, uscito nel 2015 per Jaca Book nella traduzione di chi scrive, ma pubblicato in inglese quasi trent’anni prima, e nato come trascrizione di quattro conferenze che Ngugi aveva tenuto presso l’Università di Auckland, in occasione del centenario della Conferenza di Berlino del 1884 – un libro, dunque, di per sé ibridato di oralità, ma soprattutto costruito alternando senza soluzione di continuità teoria letteraria, autobiografia, scrittura narrativa e teatrale.
Apparentemente frammentario, in realtà del tutto coeso, Decolonizzare la mente è (e come tale verrà riconosciuto negli anni successivi alla sua pubblicazione) il manifesto di quelli che verranno definiti studi postcoloniali e che tanto effetto avranno nelle istituzioni accademiche e nelle pratiche editoriali di tutto il mondo, con non pochi fraintendimenti. Al cuore del libro, e di tutta la vita e l’opera di Ngugi, infatti, c’è un concetto in fondo molto semplice: nella costruzione del proprio patrimonio culturale bisogna partire da sé, dalla propria esperienza, per poi allargare a mano a mano l’orizzonte, accogliendo altri sguardi, altre culture. (Non a caso in un libro di molto posteriore, Nella Casa dell’interprete, il secondo della sua autobiografia, edito ancora da Jaca Book nel 2017, Ngugi dedica pagine molto belle all’importanza che Shakespeare ha avuto nella sua formazione e analizza con grande onestà intellettuale luci e ombre dell’istruzione che gli è stata impartita nella scuola coloniale britannica cui ha avuto accesso come studente modello).
È a partire dalla convinzione che ogni cultura deve porsi, sia pure nel divenire, come centro del (proprio) mondo, che Ngugi non ha mai smesso di battersi per l’uso delle lingue africane, da un lato per rendere accessibile (o come si dice oggi, inclusiva) la cultura contemporanea a chi conosce e pratica solo quelle lingue, dall’altro per disinnescare la «bomba culturale» dell’inglese il cui immenso potere economico è capace di innescare nuove forme di colonialismo. Lo capiva profeticamente Ngugi decenni fa rivolgendosi all’Africa, lo possiamo constatare oggi ogni giorno nel mondo più che mai influenzato dalla religione anglotecnocratica della Silicon Valley. Quarant’anni dopo, decolonizzare la mente resta un monito urgente per tutti.