[…] Il bel volume di Matt Colquhoun, filosofo e fotografo inglese vicino al pensiero di Mark Fisher, uscito da poco per Nero, una casa editrice impegnata da anni a promuovere immaginari alternativi alla vulgata comune. L’edizione italiana del volume, dal titolo Narciso. Storia del selfie da Caravaggio a Kim Kardashian (pp. 260, euro 22, traduzione di Paolo Berti) è di grande rilevanza proprio perché affronta la questione a partire dal mito e dai significanti veicolati nell’era della proliferazione delle immagini. Nelle Metamorfosi di Ovidio, Narciso è un solitario che viene condotto dalla Ninfa senza voce Eco presso uno stagno.
Qui lui si vedrà per la prima volta, ma quello stagno-specchio diverrà la sua condanna. Infatti, non avendo più la possibilità di liberarsi da quella immagine riflessa ne morirà. Tuttavia, al posto del suo corpo, verrà trovato un fiore giallo cinto da petali bianchi. Come scrive Colquhoun: «Era sbocciato un narciso». Il mito, dunque, ci parla di una morte e al contempo di una fioritura, di una rinascita. Ed è proprio a partire da qui che l’autore del volume risignifica la vulgata sul narcisismo sostenendo la tesi secondo cui occorrerebbe approfittare di questa proliferazione di Narcisi nelle società contemporanee per pensare una trasformazione singolare e collettiva, una decostruzione dell’Io imperante.
L’autore inglese si interroga su questo nostro tempo di mutamenti e sui significati che vengono veicolati nell’era della proliferazione delle immagini
Inoltre, come ci ricorda l’autore e prima ancora il sociologo della comunicazione McLuhan, la parola Narciso deriva da narke da cui discendono termini come narcotico o narcolessia, quasi a volerci dire che «seduzione e sedazione» si intrecciano. Sicuramente un problema, una «malattia» che imperversa ovunque, ma anche un’occasione per fare della solitudine di Narciso e dei narcisisti, un processo trasformativo in cui non è più l’Io a dettare le regole, ma l’intreccio tra il Sé e gli altri. Se è infatti vero che l’egocentrismo contemporaneo è veicolato dai media e dal capitalismo delle piattaforme, è altrettanto vero che l’autoritratto è sempre esistito nella storia dell’arte e della fotografia ed è stato persino salvifico per molte e molti.
L’autoritratto, ad esempio, per molte artiste e fotografe femministe è stato fondamentale per vedersi come un soggetto e non come un «oggetto» del desiderio maschile. E così dalla pittura di Dürher e altri, altre, sino al primo autoritratto del fotografo americano Cornelius, si può arrivare al presente dei selfie di Britney Spears e Paris Hilton, così come di tutti noi. In questa interessante e affascinante storia della propria immagine tracciata da Colquhoin, tuttavia, il gesto filosofico e politico di rovesciare le narrazioni patologizzanti sul narcisismo in qualcosa di positivo, non è certamente privo di distinguo e di «spazi striati», per citare Deleuze – un autore a lui caro.
Infatti, affinché l’Io mortifero, chiuso, identitario, narcotizzato e dissociato dall’idea secondo cui gli altri sono il nostro limite oltre che la nostra prima fonte in quanto esseri sociali; affinché quell’Io tiranno possa trasformarsi in un sé in relazione, in una prima persona singolare e collettiva insieme, magari senza l’ossessione del volto, diviene indispensabile l’insegnamento di Mark Fisher. Ovverosia essere in grado di capire «il momento in cui una merce acquisisce consapevolezza di sé, o in cui un essere umano capisce di essere diventato una merce». Si, tutto il resto è narcisismo ovvero una costruzione ingannevole e feticista di un «Io» tiranno, megalomane, autoritario, in perfetto stile Trump con la sua immagine riprodotta all’infinito dall’AI sulle macerie e i morti di Gaza, divenuta anch’essa merce per l’occasione.
Anna Simone, il manifesto, 2 aprile 2025