“Neet” a chi? …di Stefano Rota

L’espressione Neet (Not in Education, Employment, or Training), è una superficiale lettura ideologica della realtà, facilmente smentira se cominciassimo col definire quali sono i lavori formali a cui avrebbe accesso una larga parte dei cosiddetti Neet – persone con storie di vita, attitudini, volontà e passioni molto diverse tra loro -, nel momento in cui decidessero di “alzarsi dal divano” (luogo comune offensivo). Le cose certe sono due e sarebbero sufficienti per cominciare a pensare diversamente. La prima: una quota difficilmente quantificabile di giovani, abbandonati gli studi, non si rivolge né alle forme più o meno tradizionali di occupazione per formare il reddito di cui ha bisogno, né alla formazione professionale per ottenere le informazioni che servono a quello scopo. La seconda: Neet non rappresenta un acronimo in cui i supposti appartenenti si riconoscono. Come in altri casi, vedi “clandestino”, è una qualità che viene loro attribuita da altri.

Neet a chi?

3 commenti

  1. Ma perché un ragazzo alla prima esperienza lavorativa dovrebbe ricevere una proposta a tempo indeterminato? Perché? Chi lo conosce?
    Chi prometterebbe un ” per sempre” ad sconosciuto? Chi?
    Lo dico da operaio, e da figlio di un operaio e di una impiegata.
    E la paga? Perché un ragazzo che non sa la differenza tra una chiave da 13 e una da 17 deve essere retribuito come uno che è da 40 anni che lavora e ha dimostrato di meritarsi quei soldi?
    Lo slogan di questo volantino è la sintesi di una società, dove mi dispiace davvero ma non mi riconosco più.
    Si parla solo di diritti, diritto al lavoro, diritto alla salute, diritto al piacere.
    Ma nella vita esistono anche i doveri, parola che non usa più nessuno.
    Viviamo in una società del tutto e subito, si vogliono tutti i diritti senza nessun impegno.
    Hai finito la scuola?
    Inizia a fare uno stage, anche a 500 euro al mese, 6 mesi, stai al tuo posto ascolta e impara, e alla fine se quel ragazzo si sarà comportato bene e avrà fatto il suo dovere nessuno lo manderà via, e riceverà il primo stipendio pieno e così via…
    Senza il sacrificio non arriva nulla, e la scusa dello stare a casa e vivere per il piacere, va bene solo nel mondo delle favole, fino a quando il papino e la mammina avranno finito i soldi.

  2. Beata ignoranza! Da 20 anni i lavori sono precari o a termine, prima sono sempre state “assunzioni a tempo indeterminato”. Così si è fatta l’industria, lo sviluppo, il progresso. Il diritto al lavoro è stabilito dalla Costituzione: un diritto al lavoro uguale per tutti e tutte! Se si lascia l’arbitrio i diritti scompaiono perché decideranno i più forti, solo loro! Il dovere è quello di vivere e la dignità è un diritto

  3. Sono state a tempo indeterminato grazie alle riforme conquistate con lotte e sacrifici, dai lavoratori.
    E io di questo non posso che ringraziare, se godo di tutto quello che altri hanno conquistato duramente, anche per me.
    Ma la differenza è che mentre loro si battevano, non rimanevano nel divano.
    Lavoravano, faticavano. Perché non avevano alternative, non c’era qualcuno che li manteneva mentre pensavano al “Piacere di vivere”.
    E dopo aver lavorato, dopo aver capito cosa vuol dire faticare, c’era la consapevolezza di cosa ci fosse da migliorare, l’importanza di essere tutelati.
    Ma in questa società, invece, chi si fa carico di quegli slogan, sono solo ragazzi che hanno tutto meno l’aver capito cosa voglia dire faticare. Perché è troppo facile rifiutarsi di lavorare, in attesa di un mondo migliore, mentre si campa con i soldi di qualcun altro.
    Tutte le lotte che Voi avete fatto, anche Lei prof, sono state buttate “nel cesso” dalla nostra generazione, dalla mia. Cresciuta con tutti i diritti del mondo, viziata, che trova tutte le scuse per non lavorare, e che è anche pigra e incapace di alzare la voce per difendere tutte le conquiste, che altra gente ha fatto per noi, perché quelle conquiste purtroppo si sono trasformate solo in dei modi per fare ancora di meno.
    Non si ha voglia di difendere i diritti, non si vuole più lavorare perché è troppo duro e degradante.
    Non si ha voglia di fare nulla. Ecco la mia generazione

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