In passato mi sono occupato assiduamente di inchieste sociali, e ne ho anche fatte. Ne ho parlato in questi giorni alla Fondazione Basso di Roma, citando anche una lettera del mio amico/maestro Aldo Capitini che così mi rimproverava: «tutti fanno inchieste, nessuno fa la rivoluzione». Aveva buone ragioni per dirlo, ma non teneva conto – e glielo spiegai – della necessità dell’inchiesta nel voler fare «la rivoluzione», poiché è esistito ed esiste un modo di fare inchiesta non accademico e non gratuito, e sono esistite ed esistono inchieste non giornalistiche che molto aiutano a comprendere una realtà e a individuarne le forze positive.
La famosa «scuola di Chicago», fondamentale per la storia della sociologia come scienza, era all’inizio fatta da teorici che ragionavano sulle proprie esperienze di operai o di stagionali. Una donna d’eccezione teorizzò per esempio, pensando al lavoro degli assistenti sociali negli anni Cinquanta dello scorso secolo, «la piccola inchiesta non trasferibile»: in sostanza, l’osservazione attenta della realtà in cui si opera, la individuazione delle forze che vi agiscono, dei leader presunti e di quelli nascosti eccetera. E chi fa oggi «lavoro sociale» farebbe bene a guardare con molta attenzione ai rapporti tra le persone e i gruppi dell’ambiente in cui opera, ché a volta se ne hanno delle sorprese, e capire chi conta davvero in un quartiere e chi decide e chi subisce può consigliare le alleanze giuste, l’alleanza come sfida. Oggi fare inchiesta non sembra molto di moda, neppure sui giornali, e più dell’inchiesta conta l’opinione.
«Tutti fanno inchieste, nessuno fa la rivoluzione» Aldo Capitini
Tutti che sparano giudizi senza risalire alle cause di un fenomeno, e pensare ai modi di contrastarlo o di sostenerlo. Gli «operatori sociali» – oggi una massa – devono pur avere qualcosa del militante, e studiare il mondo anche nel piccolo di un quartiere dovrebbe essere indispensabile per individuare i modi di cambiarlo in meglio.
Un modo di fare inchiesta che in passato ebbe una voga notevole era chiamato da alcuni con-ricerca: studiare una realtà coinvolgendo i suoi stessi protagonisti. Il gruppo dei «Quaderni rossi», tanti anni fa, nel voler comprendere i modi e le novità nel lavoro di fabbrica, il funzionamento della fabbrica, interrogava gli operai volendo aiutarli a capire meglio la fabbrica e il modo in cui combatterne quel che ne andava combattuto.
Di con-ricerca parlavano certi sociologi e operatori negli anni intorno al ‘68 e al ‘69, ma ne parlava anche la scuola di assistenti sociali «olivettiana» di cui fui allevo. Studiare insieme, investigare insieme, per capire cosa c’è dietro le apparenze, e per scegliere di conseguenza i modi migliori per intervenire, per cambiare una realtà in una direzione attiva, militante, di incontro tra chi di una certa realtà e succube e chi intende aiutarlo nella sua trasformazione, di lotta agli interessi di pochi, nell’ombra o prepotenti.
Quanto si parlò di inchiesta negli anni delle grandi lotte, e l’università di Trento quanti studenti stimolò a farne! L’inchiesta sociale è uno strumento importante di conoscenza ma deve esserlo anche di aiuto all’intervento, e questo oggi, tra i tanti «operatori sociali» che agiscono nel nostro paese, è qualcosa che manca a loro e manca a noi tutti. Non la sociologia per la sociologia, ma la sociologia in funzione dell’intervento.
il manifesto, 29 marzo 2025