Femminismo intuitivo …di Maria Galindo

Questa è un’altra delle contraddizioni presenti all’interno del movimento: un femminismo accademico con teoriche uscite dalle università e che costruiscono e usano un discorso accademista, che si presenta come il nucleo filosofico del femminismo stesso. Sto parlando di un femminismo eurocentrico, che importa le discussioni e che si alimenta della legittimazione dell’accademia del nord, opposto a un ipotetico femminismo “senza un discorso proprio” che, escludendo la mobilitazione e la strada, non avrebbe altra alternativa che consumare quel femminismo accademico.

Ciò che propongo è che quel femminismo della strada abbia un nome e che si chiami “femminismo intuitivo”; non risponde a un’istruzione ideologica e non risponde a una lettura accademica, ma risponde a una decisione esistenziale e a una lettura diretta ed esperienziale del proprio corpo, della strada, del quartiere, del carcere, dei tribunali, della disoccupazione.

Non è un femminismo carente di discorso ma uno le cui protagoniste sono le voci silenziate, senza un luogo, né un microfono. È il femminismo intuitivo quello che sta riempiendo le manifestazioni, le assemblee e quello che sta destabilizzando il patriarcato. Questo femminismo intuitivo ha bisogno di ascoltare sé stesso, ha bisogno di spazi decisionali per potersi connettere con il corpo che agisce. Non ha bisogno di forum di esperte da andare ad ascoltare, ma di spazi che concedano riconoscimento e capacità di ascolto in maniera orizzontale. Questi sono, per esempio, quelli che in Bolivia abbiamo chiamato Parlamenti delle Donne, nei quali abbiamo generato la capacità di ascoltarci senza necessità di rappresentazione e ricerca di accordo, ma costruendo collettivamente un mosaico complesso di visioni differenti che si integrano attraverso la loro complessità.

Le alleanze etiche e non ideologiche ci spingono a ripensare le alleanze non esplicitate che sono quelle che circolano oggi senza essere discusse, come le seguenti: le alleanze identitarie, quando parliamo per esempio di un femminismo indigeno il cui senso di convergenza è una presunta essenza indigena anti bianca; le alleanze generazionali che finiscono per installare uno sguardo gerontocratico sulle giovani o, al contrario, un rifiuto generazionale verso le più grandi; le alleanze vittimiste, costruite attorno al dolore come luogo di enunciazione politica e che ripetono più e più volte lo stesso discorso (femminicidio, molestia o stupro), ma non funzionano attorno ad altri orizzonti o non ripensano a questi stessi luoghi partendo dall’idea di ribellione; le alleanze territoriali che non si connettono più in là di un contesto geografico. Tutte queste alleanze possono essere legittime, possono essere spontanee, possono essere congiunturali. La domanda è se sono sovversive, se ci permettono di ripensare ai femminismi e costruire nuovi linguaggi e nuove cornici concettuali che non siano la cornice dei diritti, né delle leggi, né delle quote, né dell’inclusione ma, invece, della rivoluzione. […]

Maria Galindo, Comune, 24 settembre 2024

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