Askatasuna. Alla sbarra 28 anni di lotte sociali

Ventotto anni di resistenza per ottantotto anni di carcere. I primi sono l’età di Askatasuna, spesso abbreviata in Aska, centro sociale di Torino con sede dal 1996 in corso Regina Margherita 47. Tra i più attivi e combattivi d’Italia: instancabile motore di mobilitazione e conflitto sociale, in Valsusa come in città. I secondi rappresentano la pesante richiesta della procura nei confronti di 28 militanti del centro sociale di cui 16 accusati di associazione per delinquere. Reato mutato in «associazione a resistere» da un pezzo di città e movimento che si è stretto attorno ad Aska. Era l’ottobre di due anni fa quando, in barba a una diffida del questore, in molti si ritrovarono al numero 47 per un concerto in strada, nel quartiere Vanchiglia, per rigettare insieme le accuse, dire no alle richieste di sgombero e alla volontà di zittire una voce scomoda. C’erano i Bluebeaters, gli Africa Unite, la Bandakadabra, i Lou Dalfin e Willie Peyote. Fu appeso uno striscione con scritto «Que Viva Askatasuna».

Si sono alternate da allora le udienze al processo di Torino, che in prima ipotesi era stato imbastito dai pm (in chiusura di indagine) con il capo d’accusa di «associazione sovversiva», bocciato dal gip e riformulato dal tribunale del Riesame in «associazione a delinquere». Decisione, poi, confermata dal gup. Martedì c’è stata la requisitoria dell’accusa, sostenuta dai pm Manuela Pedrotta ed Emilio Gatti: è durata quasi otto ore. I magistrati hanno voluto precisare che non si tratta di un processo al centro sociale Askatasuna, ma a un gruppo di persone che si sono dotate di una struttura organizzativa simile a quella di un partito per «affermare la loro esistenza politica con metodi violenti». La tesi è quella dell’esistenza di un gruppo di «professionisti della violenza» che, tra le varie cose, si è impegnato nella «lotta al Tav» in Valsusa perché «è quella che dà maggiore visibilità a livello nazionale». Sono state ricostruite diverse azioni contro i cantieri portate avanti fra il 2019 e il 2021. E, poi, questa presunta «organizzazione» imporrebbe le proprie regole all’università: «Se decidono che le lezioni vanno sospese, si devono sospendere». I pm hanno parlato di «programma criminoso»; le richieste di condanna vanno per i 28 imputati da sette anni di carcere a uno.

Gli attivisti rigettano le accuse, anche i toni «sprezzanti» nei confronti di «compagni e compagne del centro sociale Askatasuna, del movimento No Tav e dello Spazio popolare Neruda», e lamentano «l’intento dell’accusa di stravolgere il significato profondo di ciò che in un contesto democratico sarebbe riconosciuto come la legittimità del dissenso e del conflitto sociale», nonché «un’imbarazzante ignoranza di cosa si tratta quando si parla di agire politico dei movimenti sociali». Lo scrivono sulle pagine di associazionearesistere.org, sostenendo che l’impostazione dell’accusa si basa su intercettazioni completamente decontestualizzate. «Si dà il caso però – si legge ancora sul sito – che mentre nelle aule del tribunale di Torino si consuma la favola distopica secondo cui il conflitto sociale sarebbe il primo male della società. La mafia, che in Valsusa è davvero presente, sta procedendo indisturbata nella costruzione del Tav, in barba alle innumerevoli inchieste, come dimostra l’interdittiva a Cogefa» su cui ci sarebbe l’ombra della ’ndrangheta.

Recentemente, in realtà, il Consiglio di Stato ha accolto una sospensiva dell’interdittiva rinviando la discussione nel merito alla camera di consiglio del prossimo 9 gennaio. Per gli attivisti «il portato delle argomentazioni dell’accusa è il sintomo plastico di come oggi è intesa la questione democratica». E spiegano: «Pensare che esista una componente sociale pronta a mettersi in gioco per cambiare l’esistente e che abbia l’ambizione di essere di massa diventa prova di organizzazione criminale. Pensare che una lotta trentennale contro il Tav sia un esempio per altre lotte diventa prova di reato associativo. Pensare che ci siano persone che hanno delle competenze a disposizione della lotta implica una prova di eterodirezione. Pensare che ci sia una collettività diventa prova di reato associativo». Al termine dell’udienza dai banchi è stata intonata Bella Ciao. A gennaio le ultime udienze, a cui seguirà la sentenza di primo grado.

Marco Vittone, il manifesto, 19 dicembre 2024

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