Oggi a Gaza non ci sono uccelli. C’è solo il silenzio dell’annientamento. L’abitare umano è stato cancellato. Il risultato di una delle campagne di bombardamento più brutali della storia moderna ha sradicato questo agglomerato urbano un tempo densamente abitato. Sono stati eliminati gli edifici, i campi, il bestiame e le forniture d’acqua. Qualsiasi forma di vita che sopravvive ci si trova tra le macerie di un genocidio e di un disastro ecologico. A questo punto, la Palestina diventa il nome di qualcosa di più di un luogo fisico.
Per riprendere le parole del poeta Rafeef Ziadah, i palestinesi sono stati costretti per decenni a vivere sotto i «cieli d’acciaio» dello Stato coloniale di Israele, mentre continuano a «insegnare la vita». La loro ininterrotta resistenza fa sì che il lato oscuro della modernità torni sempre a perseguitare un Occidente imbarazzato. Questa storia, la nostra storia, non sparirà. Nelle sue viscere c’è una giustizia che deve ancora arrivare e che tocca il cuore stesso di ciò che siamo e di ciò che stiamo diventando. Oggi la Palestina è il luogo in cui l’economia politica della modernità viene esposta e contestata più brutalmente.
L’appropriazione violenta del pianeta e la colonizzazione delle sue ricchezze e risorse hanno fatto sì che la guerra, lo spossessamento e il genocidio siano costanti. La capitalizzazione della distruzione e della morte non è collaterale ma centrale. La resistenza anticoloniale che accompagna la versione occidentale del mondo in nome del progresso tecnico e civile rivela un’inquietante sfida storica ed etica. E se la mia democrazia politica, i miei diritti civili e la mia libertà economica fossero strutturalmente legati alla negazione della democrazia, dei diritti e della libertà degli altri? E se il mio linguaggio dipendesse dal sangue, dallo sterminio e dalla violenza necessari a garantire il mio cammino nel mondo?
Ascoltando la poesia di Rafeef Ziadah e dell’antropologa palestinese Ruba Salih, sono portato a ripensare alla natura della terra, dell’indigeneità, della giustizia storica e dell’espropriazione. Se il colonizzatore cerca sempre di occupare la terra – nel Far West di ieri, nell’Amazzonia e nella Cisgiordania e a Gaza oggi – la popolazione locale, sradicata, dipende anche da essa. Questo ci pone di fronte a un bivio. Per il colonizzatore, la terra, anche se già abitata, è vuota di progresso e produttività. È in attesa di essere trasformata nel valore di scambio astratto del capitale. Teorizzato dal filosofo politico inglese John Locke, l’indigeno deve essere sterminato perché la terra diventi redditizia per garantire l’esercizio libero della democrazia dei proprietari.
Per la popolazione indigena, la terra è un concetto molto più ampio, irriducibile al mercato, alla proprietà patriarcale e alle sue istituzioni politiche. Non è un oggetto da svuotare, mappare, valutare e occupare. Piuttosto, viene vissuta con la cura e la custodia che accompagnano la responsabilità. La terra propone un modo di essere ecologico piuttosto che un’entità geografica bidimensionale avallata dalle categorie di Stato, nazione e cittadinanza. È sostiene una modalità di vita e senso di luogo che fonda i concetti politici e forme giuridiche.
La presunta centralità della proprietà e della sua infrastruttura liberale è un’intrusione aggressiva in questo paesaggio. Così come sono gli appelli astratti alla metafisica omicida del sangue e del suolo. Con forme di vita che precedono e eccedono l’umano, la terra nega le imposizioni transitorie di ideologie avide. La resistenza indigena, ovunque si manifesti, ci trascina in un’economia del tempo e dello spazio più estesa.
Queste prospettive che arrivano dalle storie più lunghe e profonde ci portano al cuore globale della questione. Se, seguendo l’imperativo coloniale, il capitalismo intende cannibalizzare sé stesso mentre distrugge il pianeta – l’apocalisse sarà trasmessa e redditizia – la resistenza anti-coloniale ci porta altrove. Mentre apparentemente non c’è un esterno alla modernità capitalista, la Palestina comunque sostiene un’insistenza critica che interrompe e interroga il suo linguaggio e la sua autorità.
L’attaccamento simultaneo alla terra, all’ulivo, e allo stesso tempo al diritto di avere diritti e libertà pone una sfida che le concezioni esistenti di stato, nazione e cittadinanza non sono in grado a contenere. Costretti a lavorare attraverso un rapporto con un paesaggio distrutto, sia nella fisicità del territorio che scompare, sia nelle relazioni ibride prodotte dalla diaspora, la resistenza, la persistenza e l’esistenza della Palestina brucia come fosse un faro che illumina altre pratiche politiche da seguire.
il manifesto, 6 dicembre 2024