Le tappe previste con partenza Sabato 16/11 sono le seguenti:
– Velika Kladuša Bosnia Nord Ovest confine Croazia associazione No Name Kitchen. Chiedono alimenti a lunga conservazione.
– Bihac Bosnia Nord Ovest confine Croazia associazioni Pomozi Ba e SoS Bihac. Chiedono supporto mediazione legale e accessori per il freddo (calze, scarpe, telini e sacchi a pelo) cibo a lunga conservazione e CETRIZINA
– Sarajevo associazione WORD INTEGRATION CENTER. Telefoni e Power bank. Giacche e scarpe.
– Tuzla Bosnia nord est confine Serbia associazione Udruženje građana Margina dintrists di una sage House di transito . C’è bisogno di tutto.
Vi terrò aggiornati e presenti nel mio cuore durante il viaggio.
Grazie. Mira
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Giorno 1
Il viaggio è stato lungo e stancante, un po’ come la vita, sempre più lenta e complicata. La nebbia mi ha accompagnato per tutta la strada, e il traffico era un fiume impetuoso, come un’ombra che non riesci a lasciare alle spalle. Alla frontiera c’era una coda interminabile, proprio come certe attese che sembrano non finire mai.
Sono arrivata a Velika Kladuša, un piccolo angolo dove la vita si fa pesante ma non si arrende. Qui, due donne straordinarie, Jasmina e Zarfina, gestiscono la situazione con determinazione. Sono andata alla stazione degli autobus, un luogo carico di storie non raccontate, dove ho incontrato molti ragazzi siriani e afgani appena respinti al confine. Cercano di tornare a Lipa, nel campo di accoglienza, ma la loro speranza sembra esser stata accolta solo dalla neve gelida che oggi punge la pelle. Fa molto freddo, ma almeno non piove.
Ho distribuito calzini di pile e scarponcini nuovi, ma molti hanno piedi così piccoli che non ho potuto fare molto. Per esempio, non avevo scarpe per un numero 36, ma anche quelle sarebbero state necessarie. Nonostante tutto, ogni piccolo gesto sembra pesare come una montagna.
La polizia mi ha fermato più volte, chiedendomi perché occupassi la piazza della stazione. “Per amore,” ho risposto, con una verità che forse nessuno ha voglia di sentire, ma che nel mio cuore brucia come una fiamma, pronta a scaldare anche chi non sa come accoglierla.
Mira, 16 novembre
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Giorno 2: tra Velika Kladuša e Bihać
La strada che collega Velika Kladusa a Bihać non ha nulla di speciale, ma oggi è diversa. Oggi è una di quelle giornate che ti segnano, che non dimentichi. Come spesso accade, il viaggio non è solo un tragitto fisico, ma anche un percorso che attraversa le storie, le vite di chi incrocia il tuo cammino, e oggi ne ho incontrati alcuni.
Erano ragazzi marocchini e palestinesi. Fuggivano da un destino che non avevano scelto, cercando di attraversare la rotta balcanica. La loro pelle raccontava di paesi lontani e tra di loro, un ragazzino di soli tredici anni. Il più piccolo del gruppo, ma con uno sguardo che non tradiva la sua età. Quel volto giovane, segnato dalla fatica raccontava più di qualsiasi parola potesse dire.
I ragazzi si trovavano a Sturlić, lungo la strada che stavo percorrendo. Erano stati respinti durante la notte, come sempre accade a chi tenta di varcare il confine. Non c’era nessuna sorpresa nei loro occhi, solo una stanchezza profonda, quella che nasce dopo giorni e notti passate a camminare, a sperare, a lottare contro il freddo, la fame, la paura.
Mi sono fermata. Non avevo molto da offrire, ma ciò che avevo, l’ho dato. Un po’ di cibo, calze asciutte, guanti, berretti. Un gesto semplice, ma in quel momento sembrava tutto ciò che potevo fare per alleviare almeno un poco il loro dolore.
Alcuni erano talmente stanchi che faticavano a tenere gli occhi aperti. Il piccolo, quel ragazzo di tredici anni, mi ha guardato con un misto di diffidenza e gratitudine. “Grazie,” ha sussurrato, ma io sapevo che non era tanto un grazie per quel poco che gli stavo dando, quanto un grazie per non essere stata indifferente. Il più grande di loro mi ha spiegato, in poche parole, che erano stati respinti durante la notte, e ora cercavano di tornare al campo, dove ogni giorno è una lotta per sopravvivere. “Non ci lasciano entrare, non ci vogliono qui”, ha detto, e nelle sue parole c’era tutta la disperazione di chi sa che la strada che sta percorrendo non ha un vero obiettivo, solo un ciclo infinito di respingimenti e false promesse.
Mi è venuto in mente quanto siano fragili quelle vite, quanta speranza c’è dietro ogni passo che fanno. Erano bambini, ma viaggiavano da soli. Eppure, nonostante tutto, si muovevano insieme. Uniti, forse, solo dalla speranza di un domani migliore, di una terra che li accolga finalmente.
Il pensiero di quel ragazzino di tredici anni mi ha tormentato per tutta la sera. Dovrebbe ma lui non stava giocando con gli amici, non stava studiando, non stava vivendo l’infanzia che gli è stata negata. Stava cercando di sopravvivere a una rotta balcanica che non fa distinzioni, che non perdona. Ho dato loro tutto ciò che avevo, ma sapevo che non bastava. Non basta mai. Non basta per scaldare il freddo di una strada che ti respinge. Non basta per dare un futuro a chi è costretto a camminare senza una meta.
Sono ripartita, ma il loro volto è rimasto con me. E mi chiedo quante altre storie ci sono lungo questa rotta, quante altre vite sono sospese tra la speranza di una vita migliore e la durezza di una frontiera che non conosce pietà. Quante strade percorrono questi ragazzi, e quante notti passeranno ancora, da soli, sotto il cielo che non li guarda?
Il viaggio continua, ma oggi ho capito che ogni passo che facciamo, ogni gesto che facciamo, non è mai abbastanza. Ma è l’unica cosa che possiamo fare.
Mira, 18 novembre
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giorno 3, 19 novembre
Oggi mi sento stanca, davvero stanca, non solo nel corpo, ma nell’anima. Ogni giorno che passo a Bihać è un’alternanza di emozioni contrastanti. Mi sveglio con il cuore pesante, consapevole che ci sono ancora tante persone da aiutare, ma oggi, forse, è una delle giornate più difficili.
Sto attraversando la stazione degli autobus quando vedo una famiglia turca: una mamma, un papà e tre bambini. I loro volti sono segnati dalla stanchezza, ma non c’è disperazione nei loro occhi, solo una grande determinazione. La mamma tiene stretto il piccolo, di soli otto anni, mentre le due bambine più grandi sembrano aver smesso di parlare, il silenzio che portano con sé spesso è il segno di un dolore troppo grande per essere espresso a parole. Il papà, forte, ma con il volto scavato dalla fatica, cammina lentamente dietro di loro. Si sono fermati lì, nel cuore della città, a metà strada tra un viaggio interminabile e la speranza di trovare una via d’uscita.
Mi avvicino con lo zaino pieno di abiti e scarpe. Vedo i piedi dei bambini, gonfi e doloranti, e il cuore mi si stringe. Le scarpe che hanno sono ormai ridotte a stracci. Prendo un paio di scarponcini da neve, quelli che cerchiamo sempre di tenere in stock, e glieli faccio indossare. Il piccolo mi guarda con occhi pieni di gratitudine, ma anche di un’incredibile tristezza, come se quel piccolo gesto non fosse abbastanza per colmare il vuoto che sente dentro.
La mamma mi guarda e sussurra “Teşekkür ederim” (grazie), ma non è solo una parola di cortesia. La sua voce tremola, e il suo sguardo, seppur carico di gratitudine, nasconde una paura che non riesco a definire. Vedo le mani del padre tremare mentre cerca di sistemare le cose in una piccola borsa, e per un attimo ho l’impressione che stiano cercando di aggrapparsi a qualcosa di familiare, qualcosa che li faccia sentire ancora umani in mezzo a tutto questo disastro.
Penso che la loro strada sia ancora lunga. La situazione diventa ancora più tragica quando sento parlare dello squat della torre, quello che ormai è stato chiuso dalla polizia. Gli uomini in divisa hanno piazzato delle barre di ferro e hanno smantellato tutti i rifugi improvvisati che avevano costruito nelle notti più dure. Quella torre, che per molti è stata un rifugio, un angolo di speranza, non esiste più. E i rifugi sono spariti, come le ultime tracce di una vita normale.
I piedi dei migranti sono spesso l’aspetto che più mi segna. Quando le scarpe sono poche e i piedi sono tanti, diventa chiaro quanto sia crudele la condizione in cui si trovano. Oggi, più che mai, vedo i piedi di quei bambini. I piedi di chi cammina per giorni su strade ghiacciate, i piedi di chi cerca un rifugio che non arriva mai. Ma ciò che mi colpisce di più, più di tutto, è che nonostante tutto, quei piedi, quelle persone, non si arrendono mai. Ogni giorno, si rialzano, sempre con la speranza che qualcosa cambi.
La gravità della situazione mi colpisce in pieno oggi, quando devo constatare che non è possibile medicare i piedi di alcune persone a bordo strada. La situazione è troppo grave, il puzzo di marcio che si sprigiona dalle piaghe è insopportabile, e la condizione in cui si trovano non è assolutamente gestibile in quel contesto. È un incontro con la realtà di una crisi che sembra non avere fine.
A volte, quando sento che non ce la faccio più, sono Semiz e Zlatan che mi danno quella spinta in più per andare avanti. Ogni giorno, ogni notte, loro sono lì, a fare quel lavoro che sembra non finire mai. Semiz, con il suo sorriso caldo e la sua forza, mi ricorda che la vera missione qui è quella di dare. Dare a chi non ha, dare senza chiedere nulla in cambio. Zlatan, con la sua calma infinita, riesce a trasmettermi una pace che non trovo mai altrove. Loro sono la mia ancora, e ogni volta che ci abbracciamo, in quei momenti di silenzio, sento che, nonostante la fatica, c’è ancora una speranza da coltivare.
Mentre lascio Bihać e mi dirigo verso Sarajevo sento che un nodo mi stringe la gola. La città, che ormai è diventata per me una quasi una seconda casa, è piena di storie non raccontate, di persone che cercano di andare avanti nonostante tutto. Ma so che non posso restare. La rotta è lunga, le necessità sono tante, e ci sono luoghi dove l’ aiuto è altrettanto importante. Ma ogni volta che lascio un posto, un angolo di questa città, sento che porto con me un pezzo di ogni persona che ho incontrato, di ogni bambino, di ogni famiglia che ha attraversato questa strada.
Non smetterò mai di pensare a quella famiglia turca. A quei bambini con i piedi gelati, a quella madre che sperava che almeno quel piccolo gesto fosse sufficiente. E mi sento stanca, sì, ma anche più forte. Perché ogni volta che aiutiamo, ogni volta che diamo qualcosa, anche solo un paio di scarponcini da neve, facciamo un piccolo passo verso una speranza che, in qualche modo, deve arrivare. Deve arrivare e se non arriva bisogna andare a prenderla .
Mira, 19 novembre