Il 90 per cento dei giovani tra 15 e i 29 anni classificati come «Neet» lavorano in nero. Lo sostiene la ricerca «Lost in transition» commissionata dal Consiglio nazionale dei giovani con il supporto tecnico dell’Istituto di Ricerche Educative e Formative (Iref). Il dato va preso per quello che è: una stima su una condizione aleatoria che in Italia ha raggiunto un record. Stando all’Istat i «Neet» sono 2,1 milioni, il 16,1% dei giovani nella fascia d’età considerata contro l’11,2% in Europa.
Non è il dato qui a interessare più di tanto, ma il suo significato. Dire che il 90 per cento dei «Neet» lavora contraddice la categoria «Neither in employment nor in education and training» (cioé senza lavoro, non studiano, né si formano). I «neet» non rifiutano il contatto con la società. Al contrario, ne incarnano l’essenza: il precariato più selvaggio e invisibile. Dunque mon vivono nell’astrazione della statistica, ma alimentano il serbatoio di lavoro nero e ultra precario, anche online, intervallato da periodi di inoccupazione. A ben vedere questa non è una condizione esclusiva dei «giovani», ma è quella comune a un proletariato molto ampio, eppure senza voce né rappresentanza, composto da tantissime altre categorie, status sociali non legati solo a una professione, vite condotte nel lavoro povero. A cominciare da quelle dei genitori di questi ragazzi. La povertà si crea e la si eredita. I «Neet», allora, fanno parte di questa società dimenticata, e invisibile alla cultura e ai media, che si arrangia senza il sostegno di un’istruzione, di un reddito, di un Welfare a pezzi.
Il rapporto «Lost in transition» distingue tra i Neet metropolitani e quelli che vivono nelle «aree interne». I primi sono più attivi nell’economia informale. Città costruite sul lavoro precario offrono più opportunità di essere sfruttati. Questo accade meno nelle piccole città dove le occasioni sono inferiori. I ragazzi delle metropoli sembrano meno dipendenti dalle famiglie. Cosa che non accade per i coetanei delle aree interne perché l’economia non ha risorse sufficienti per sfruttarli di più. I Neet metropolitani sono più istruiti (65,3%, altra contraddizione rispetto alla definizione), quelli delle aree interne meno (9,6%). Ciò riflette le differenze dell’accesso all’istruzione e una diversa capacità di scelta nel «prendersi una pausa» dal precariato a tempo pieno.
Su tutti pesa la sfiducia nella società che non garantisce una possibilità reale di uscire da un girone infernale.
il manifesto, 24 luglio 2024