Lettera da Rebibbia

Qui una lettera da Rebibbia di una detenuta che scrive a il manifesto. Una testimonianza del degrado del sistema carcerario, che non è frutto dell’incuria, ma la forma punitiva e violenta assunta dal carcere, come manifestazione dello Stato repressivo nella democrazia autoritaria.

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Caro manifesto, vorrei far conoscere quello che succede nel carcere femminile di Rebibbia. Ieri pomeriggio, dopo la visita della garante comunale dei detenuti, la direttrice, per tramite degli agenti della polizia penitenziaria, ci ha fatto recapitare uno dei suoi soliti diktat. Ve ne allego uno scritto a mano ricopiato dall’originale dato che non è possibile per noi farne una fotocopia. (Si tratta di un elenco di cosa è consentito tenere nelle celle, vestiario, oggetti e libri – non più di quattro, ndr). L’aspetto peculiare di questa vicenda è che quando io, reclusa qui da 19 mesi, ho chiesto di poter parlare con la direttrice, mi è stato risposto con un secco: «Non c’è!». La cosa è strana perché i direttori delle carceri dovrebbero essere reperibili h 24 o comunque delegare un altro funzionario.
Per queste ragioni ho informato anche tutti i garanti. Noi detenute siamo senz’acqua calda, praticamente senza telefoni; c’è infatti una sola postazione telefonica che funziona al primo piano, che possiamo utilizzare solo se autorizzate, ed è possibile chiamare soltanto una volta alla settimana i familiari e l’avvocato. Il costo della chiamata è di 1 euro, la durata dieci minuti. Viviamo in celle fatiscenti con sanitari a pezzi, la muffa sulle pareti, le porte del bagno mancanti in alcune celle, il cibo scadente e insufficiente, l’assistenza medica quasi del tutto inesistente.
E la direzione del carcere cosa fa? Ci impone regole assurde dopo aver fatto firmare un “patto di responsabilità” con una serie di aut aut del tipo “chi non studia o non lavora viene trasferito, le celle devono essere pulite”. Tutto questo senza dire ovviamente che i detersivi li compriamo da sole e non ci vengono neanche più fornite carta igienica, assorbenti e una, dico una, saponetta! C’è poi l’ obbligo della pulizia personale: giusto! Siamo senz’acqua calda, con quattro docce esterne al primo piano di cui soltanto due funzionanti, poste oltretutto in un ambiente pieno di muffa e umidità. La direttrice, Nadia Fontana, non vuole incontrare nessuna di noi, respinge qualsiasi richiesta da parte nostra, impone regole punitive e non rieducative con sprezzo dell’articolo 27 della Costituzione. Infine, ciliegina sulla torta, ha fatto cancellare un murales fatto dalle detenute con il disegno di una farfalla con le ali spiegate. Io non ho paura di dire tutto ciò, vorrei solo che pubblicaste questa mia e faceste da megafono alle nostre voci di donne detenute.

Lucia D’Andrea, Carcere di Rebibbia

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