La pervicace e totalitaria propaganda occidentale in difesa di Israele non riesce a nascondere il salto nel buio compiuto dal governo di Netanyau, accusato di crimini di guerra, che in sette mesi ha distrutto la ragione storica discutibile ma vera dell’identità ebraica costituita in stato nazionale.
La guerra genocida intrapresa da Israele a Gaza ha prodotto la rottura tra l’ebraismo e lo stato ebraico sancito nel 1917 dalla dichiarazione Balfour. La tragica conseguenza di questa rottura è che Israele non ha più niente a che fare con l’ebraismo e con la millenaria cultura storico-politica dell’esodo che nella modernità ha costituito un’alternativa alla sovranità statale.
In modo ancora più drammatico la fine della rivendicazione di libertà di un popolo disperso e in esilio permanente, che per secoli ha praticato il conflitto contro “i capi delle nazioni”, ha generato in pochi anni la fine della cultura messianica che ha alimentato un pensiero anarchico e una secolare teoria politica di lotta al Leviatano.
Fin dall’inizio della Torah, infatti si trattava della storia di una popolazione che riceve la sua costituzione prima di “fare nazione”. Fin dall’inizio si trattava di liberarsi dal senso univoco della legge nella pluralità dei significati. Le tribù, non lo stato. La casa nel deserto, non il tempio chiuso. La legge orale, la Mishnah, non la legge positiva. Il Talmud, non i rituali di sangue, fuoco ed espiazione. Il silenzio e il ritiro. L’ebraismo è questa forma di vita.
In questa esistenza era compreso anche il sionismo, costituito da tendenze diverse e che nell’idea originale di Herzl era l’esito della liberazione di Sion, la cui finalità era una costituzione politica che non si risolveva nello stato nazionale ma in una terra in cui avrebbe potuto abitare una popolazione. Ma dal momento in cui il sionismo è diventata una categoria politica agitata con violenza dalla destra, rappresa negli anni all’interno delle comunità ebraiche, la confusione tra antisionismo e antisemitismo è divenuta pretesto della reazione armata di Israele e della repressione delle proteste in tutto il mondo.
Accusare di antisemitismo ogni protesta e ogni presa di posizione contro la guerra e le stragi testimonia quanto sia abissale la distanza di Israele dall’ebraismo profetico della promessa. Ciò che infatti la religione di Abramo designava come primato di elezione era la giustificazione della costituzione tribale di una popolazione che lottava contro gli imperi e le forme politiche di dominazione. Ma dal momento in cui la politica di Israele ha coinciso con lo stato l’eredità della vita comune è scomparsa.
Le radici ebraiche della modernità non sono più parte della tradizione di apertura (le porte aperte a Pesach) in cui comunque continua la necessaria convivenza con il popolo palestinese, come testimoniano la letteratura e il cinema più consapevoli, da anni in esilio volontario.
La vicenda storica dei kibbutz indica questo movimento. I pionieri anarco-socialisti di prima immigrazione, raccontati da Gershom Scholem e da Gustav Landauer, una volta formate associazioni privatistiche hanno dismesso la vita collettiva e hanno iniziato a difendere con tutti i mezzi gli insediamenti e le terre vendute loro da ricchi arabi. Di questa mutazione ha scritto Martin Buber e da questo movimento emerge la distanza tra le istanze libertarie che generazioni di rivoluzionari hanno raccolto e praticato, e che oggi forse una minoranza coltiva in privato, e lo stato di guerra permanente tra la Cisgiordania e Gaza.
Nell’accusa di antisemitismo consiste la nuova forma di fascismo in vigore in occidente. Giustificare con questa accusa da parte dei “democratici” la “difesa di Israele” in seguito al massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre è il segno flagrante che niente di ebraico è rimasto nelle democrazie occidentali e che anche la radice ebraica dell’illuminismo liberale è stata recisa.
Noi invece come Hannah Arendt non amiamo un popolo ma continuiamo ad amare i nostri amici e le nostre amiche.
Comune-Info, 4 maggio 2024