Il Governo ha depositato il nuovo ddl in materia di sicurezza. Tra i molti nuovi reati e aumenti di pena, ecco il reato di rivolta penitenziaria (in altra norma si dice che varrà anche per i Cpr). L’art. 415-bis stabilirà che chiunque, all’interno di un istituto penitenziario, mediante atti di violenza o minaccia, di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti ovvero mediante tentativi di evasione, commessi in tre o più persone riunite, promuove, organizza o dirige una rivolta è punito con la reclusione da due a otto anni. Per il solo fatto di partecipare alla rivolta, la pena è da uno a cinque anni.
Ripubblichiamo un articolo apparso nel novembre dell’anno scorso, di Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone, che commenta l’introduzione del “nuovo reato” di “rivolta carceraria”, pescando nel regolamento fascista del 1931. Se è vero che il carcere è lo specchio oscuro della società, siamo di fronte all’ennesimo passo verso una società autoritaria che produce uno Stato esclusivamente repressivo
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Con il nuovo delitto di rivolta nasce il reato di lesa maestà carceraria. Il governo, a volto e carte scoperte, ha deciso di stravolgere il modello penitenziario repubblicano e costituzionale, ricollegandosi al regolamento fascista del 1931. Il crimine di rivolta carceraria, così come delineato all’interno del pacchetto sicurezza, sarà un’arma sempre carica di minaccia contro tutta la popolazione detenuta. Qualora dovesse essere approvato così come è stato scritto, cambierà la natura del carcere in modo drammatico e autoritario. Il nuovo articolo 415-bis del codice penale punisce fino a otto anni di carcere: “Chiunque, all’interno di un istituto penitenziario, mediante atti di violenza o minaccia, di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti ovvero mediante tentativi di evasione, commessi da tre o più persone riunite, promuove, organizza, dirige una rivolta”.
La violenza commessa da un detenuto verso un agente di Polizia penitenziaria, che già prima era ampiamente perseguibile, ora è parificata alla resistenza passiva e alla tentata evasione. In sintesi se tre persone detenute che condividono la stessa cella sovraffollata si rifiutano di obbedire all’ordine di un poliziotto, con modalità nonviolente, scatterà la denuncia per rivolta. Un detenuto, ad esempio entrato in carcere per scontare qualche mese per un furto semplice, ci potrebbe restare per quasi un decennio, senza potere avere accesso ai benefici penitenziari, in quanto la rivolta viene parificata ai delitti di mafia e terrorismo. Ancora più incredibile è l’avere inserito il tentativo di evasione tra le modalità di realizzazione della rivolta (non riuscita visto che il detenuto ha solo tentato di scappare), alla faccia del principio penalistico del ne bis in idem, in base al quale non si può essere puniti due volte e per due delitti diversi a causa della stessa condotta.
Nella quotidianità della vita di galera questa norma sarà un’arma di ricatto per indurre alla disciplina e al silenzio una parte dei detenuti che non dovranno mai più dissentire, protestare, opporsi a qualunque ordine carcerario. E chiunque abbia esperienza di vita di galera sa perfettamente quanti ordini irrazionali, talvolta incomprensibili, vengono emanati in un contesto di vita non di rado disumano. È questo l’annichilimento di uomini e donne, così definitivamente esclusi da ogni dimensione di vita autonoma e responsabile. È la trasformazione del detenuto in corpo docile che deve obbedire. Con il delitto di rivolta carceraria, che varrà anche per i migranti reclusi nei Cpr, è evidente il richiamo alle norme presenti nel regolamento carcerario fascista del 1931 quando si prevedeva che “i detenuti devono passeggiare in buon ordine e devono parlare a voce bassa” o che per “dare spiegazioni alle persone incaricate della sorveglianza i detenuti sono obbligati a parlare a bassa voce” o infine che “sono assolutamente proibiti i canti, le grida, le parole scorrette, le domande e i reclami collettivi”.
Il governo cerca di mantenere le promesse fatte in campagna elettorale ai sindacati autonomi di Polizia regalando un uso indiscriminato delle armi, un’idea di superiorità assoluta dei lavoratori in divisa rispetto a qualunque altro lavoratore, la trasformazione del carcere in luogo dove i detenuti, come accadeva nel passato, devono camminare lungo le pareti e a testa bassa. In questo modo a ogni denuncia per tortura seguirà la contro-denuncia per rivolta. Neanche Rocco, il ministro fascista che dette il nome al codice penale dell’epoca, era arrivato a concepire un reato del genere. Infine, va ricordato che le rivolte carcerarie del 2020 in pieno lockdown si sono concluse con tredici detenuti morti e le brutalità della Polizia penitenziaria sotto processo a Santa Maria Capua Vetere.
Patrizio Gonnella, il manifesto, 19 novembre 2023