«L’ospite, il supplice, è come un fratello per l’uomo che abbia anche un poco di senno». Agli albori della cultura europea, le parole di Omero ci ricordano che la protezione dello straniero, e di colui che invoca aiuto, erano manifestazioni della giustizia divina.
Chi ha fame andrebbe sfamato, non ucciso, e il fatto che tanti cerchino capziosamente di eludere la doppia ingiustizia che si è consumata a danno di centinaia di supplici a Gaza è un sintomo dell’abisso morale in cui stiamo precipitando. Che ci siano tanti intellettuali impegnati in prima fila per offuscare distinzioni – come quella tra giustizia e vendetta – che dovrebbero essere chiare a chiunque abbia «anche un poco di senno», è una cosa che forse non stupisce, ma certo riempie di amarezza.
Sono passati quasi cinque mesi dal brutale attacco di Hamas ai danni di civili, non solo israeliani: tra le vittime ci sono stati gli abitanti di alcuni kibbutz, membri delle forze di sicurezza e anche tanti ragazzi e ragazze che stavano prendendo parte a un rave nelle vicinanze del confine con la striscia di Gaza. Secondo dati recenti, le persone uccise nel corso di quella carneficina sono state almeno 1.160, alle quali bisogna aggiungere i feriti e gli ostaggi (alcuni dei quali sono stati liberati, ma la maggioranza, se non sono morti, sono ancora nella mani dei rapitori). Negli stessi cinque mesi da quel terribile 7 ottobre, sono stati uccisi più di 30mila palestinesi, una buona parte dei quali erano donne e bambini.
Non è chiaro, allo stato attuale, quanto questo massacro abbia indebolito Hamas, ma pare indiscutibile che non abbia facilitato la liberazione degli ostaggi. Neppure si capisce quale sia la strategia perseguita dal governo di Israele, e questa opacità, accompagnata dalle dichiarazioni dei più estremisti tra gli esponenti della coalizione, alimenta il timore che alla espulsione degli abitanti della striscia di Gaza possa seguire una nuova, massiccia e illegale, annessione di territori.
In queste circostanze, e mentre alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia si discute di un’accusa di genocidio a danno dei palestinesi, ci sarebbe un gran bisogno di persone che abbiano «un poco di senno». Invece, quello che leggiamo e ascoltiamo è, in molti casi, il tentativo di giustificare l’ingiustificabile. La disumanizzazione delle vittime, e persino l’accusa di antisemitismo rivolta a ebrei, anche cittadini israeliani, che hanno il rigore morale e il coraggio di denunciare le politiche del governo Netanyahu.
Per quel che riguarda l’Italia, la cosa che più colpisce, oltre alla povertà degli argomenti di chi cerca di difendere l’uso massiccio e indiscriminato della forza da parte del governo israeliano, è l’assoluta incapacità di buona parte di coloro che intervengono su questo tema di rendersi conto di quanto sia cambiata negli ultimi venti anni la sfera pubblica globale.
Ai tempi delle guerre in Afghanistan e in Iraq, la maggior parte delle voci che dominavano il dibattito sulla politica estera erano di studiosi o giornalisti statunitensi o europei. Tra questi, pochissimi erano originari di paesi mediorientali, e in molti casi neppure esperti dell’area o familiari con le culture, le lingue, e le storie dei paesi su cui formulavano giudizi perentori.
Oggi la situazione è molto diversa.
Chiunque abbia accesso alla stampa internazionale, segua i numerosi canali all news, i podcast, e legga qualche libro, non può che essere colpito dalla quantità e dalla varietà delle voci che provengono dal Medio Oriente, o da paesi che oggi vengono descritti con l’etichetta di «Global South» (che coincidono in realtà con gran parte delle ex colonie europee). Kim Ghattas, Kenan Malik, Anita Anand, Mehdi Hasan, Nesrine Malik o Sathnam Sanghera sono i primi nomi che vengono in mente, ma la lista potrebbe essere lunghissima.
Grazie a queste voci, e a tante altre con un simile background, oggi abbiamo una comprensione molto più profonda e bilanciata della storia dei rapporti tra le ex potenze coloniali e le vittime del colonialismo, e anche delle conseguenze che essa ha per la politica internazionale.
Visto alla luce della sfera pubblica globale, il dibattito italiano appare provinciale e asfittico. Tutti bianchi, e in larga parte maschi, gli editorialisti e gli ospiti di talk show che cercano di giustificare o di sminuire l’enormità del massacro in corso a Gaza proiettano l’immagine di un piccolo Paese che ha perso contatto con la realtà.
Mario Ricciardi, il manifesto, 3 marzo 2024