«Il nostro approccio ai paesi africani non sarà predatorio, né paternalistico, né caritatevole». Così ha esordito la Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, nell’avvio del vertice Italia-Africa, che dovrebbe lanciare il cosiddetto “Piano Mattei”. Verrebbe da rispondere che, quando un piano si definisce in negativo, siamo nella dimensione dell’“excusatio non petita, accusatio manifesta”. In cosa consista il “Piano Mattei”, aldilà di fantasmagorici obiettivi sulla crescita sostenibile del continente africano, resta ancora misterioso. A partire dai fondi messi a disposizione: 5,5 miliardi, una cifra irrisoria e peraltro prelevata da capitoli già esistenti, come il Fondo italiano per il clima (3 mld) e dal Fondo per la Cooperazione (2,5 mld).
In realtà, gli obiettivi si intuiscono fra le righe e c’è poco di cui andare fieri: fermare la migrazione verso l’Europa e sfruttare al massimo livello le risorse idriche ed energetiche del continente africano (la presenza di Eni nella gestione del piano è di per sé il programma), anche per inseguire il sogno fossile di fare dell’Italia l’hub del gas dell’intero continente europeo. Tanta enfasi solo per chiudere le porte ai barconi e aprire i rubinetti dei gasdotti, con buona pace della giustizia climatica e sociale di cui l’Africa in primis ha un diritto sancito da secoli di colonialismo.
Eppure, se davvero stesse a cuore il destino del continente africano, sarebbe più semplice intervenire con un’unica e decisiva misura: l’annullamento del debito, che da sempre strangola le società africane e che è arrivato a livelli drammatici. Il 2024 si è infatti aperto con il default dell’Etiopia, il cui governo ha dichiarato, poco prima di Natale, di non poter pagare la rata di 33 milioni di dollari ai fondi pensione e altri creditori del settore privato che detenevano il relativo bond. Il fallimento dell’Etiopia è il terzo registrato nel continente dopo la pandemia, dopo quello dello Zambia nel novembre 2020 e del Ghana nel dicembre 2022.
A far precipitare la situazione hanno contribuito sia gli strascichi della crisi del Covid-19, con ampliamento del deficit di bilancio e rallentamento della crescita economica, sia il rialzo dei tassi di interesse deciso dalla Federal Reserve degli Stati Uniti, che ha avuto effetti devastanti sui debiti esteri denominati nel biglietto verde.
Come è facilmente intuibile, non si tratta di casi isolati ma di una situazione che riguarda l’intero continente: secondo i dati della Banca Mondiale, la percentuale di paesi africani ad alto rischio o già in situazione debitoria è passata dal 27% nel 2015 al 55% nel giugno 2023, mentre il peso del debito dei paesi dell’Africa subsahariana, ovvero le somme destinate al pagamento degli interessi, è passato dai 59 miliardi del 2012 ai 109 miliardi attuali.
A questo quadro, va aggiunto il cambiamento nella composizione del debito, che ha visto una netta diminuzione della quota dei prestiti cosiddetti “agevolati” previsti dagli “aiuti pubblici allo sviluppo” e un aumento esponenziale dei prestiti bilaterali contratti da creditori privati. Rendendo il quadro ancor più vulnerabile: sempre seguendo i dati della Banca Mondiale, il costo degli interessi sul debito dell’intera regione ha raggiunto nel 2022 il 31% delle entrate ed è già prevedibile un ulteriore balzo in avanti nel prossimo biennio.
Un quadro pesantissimo, senza affrontare il quale, nessuna inversione di rotta sarà praticabile e ogni intervento riprodurrà sotto altre vesti – le carte di credito al posto dei carri armati – le dinamiche coloniali di estrattivismo, predazione dei beni comuni, sfruttamento e povertà che da sempre caratterizzano la relazione fra il mondo ricco e il continente africano.
A Giorgia Meloni e alla sua tardiva vocazione africanista, consiglierei vivamente di far tesoro delle parole pronunciate il 29 luglio 1987 da Thomas Sankara, rivoluzionario e presidente del Burkina Faso, al vertice dell’Organizzazione dell’Unità Africana ad Addis Abeba, in Etiopia: «Il debito non può essere rimborsato, innanzitutto perché, se non lo rimborsiamo, i prestatori non moriranno. Questo è certo. Ma se ripaghiamo, saremo noi a morire. Anche questo è certo. Chi ci ha portato all’indebitamento ha giocato d’azzardo come in un casinò. Finché hanno avuto guadagni, non c’è stato dibattito. Ma ora che subiscono delle perdite, chiedono il rimborso. E parliamo di crisi. No, signor presidente, hanno giocato, hanno perso, questa è la regola del gioco e la vita continua».
Il discorso di Sankara si concludeva con un fosco presagio: «Se il Burkina Faso è il solo a rifiutarsi di pagare, io non sarò più qui per la prossima conferenza» e, infatti, fu assassinato tre mesi dopo da un complotto interno, sostenuto da Francia, Usa e Libia.
Sono passati 40 anni, ma se l’Africa non imbocca il sentiero tracciato da Sankara, ogni ‘Piano Mattei” sarà un passo avanti verso il baratro.
Marco Bersani, il manifesto, 30 gennaio 2023