Stefano Mauro intervista Sultana Khaya
Omar Zniber, rappresentante permanente del Marocco presso le Nazioni unite a Ginevra è stato eletto la scorsa settimana presidente del Consiglio dei Diritti Umani, l’organismo Onu che è incaricato di «rafforzare la promozione e la tutela di questi diritti nel mondo». Un voto a scrutinio segreto criticato da numerose ong, come Human Rights Watch e Amnesty International, per la dura repressione di Rabat nei confronti di attivisti, giornalisti e soprattutto nel Sahara occidentale occupato.
Sul mancato rispetto dei diritti umani e le violenze sul popolo saharawi, il manifesto ha intervistato Sultana Khaya, simbolo della lotta non violenta e presidentessa della “Lega per la difesa dei diritti umani”.
Marocco alla presidenza del Consiglio dei Diritti Umani, come giudica questa scelta?
Deludente. In linea con l’abbandono del popolo saharawi da parte della comunità internazionale e dell’Onu che con le sue risoluzioni “vuote” di questi anni non è riuscita nemmeno a imporre il controllo sul rispetto dei diritti umani nel Sahara Occidentale. Come Repubblica Araba Democratica Saharawi (Rasd) abbiamo sostenuto la candidatura del Sudafrica, che rappresenta i valori di rispetto e tutela dei diritti di tutti. Lo conferma anche l’azione sudafricana all’Aja a sostegno della lotta del popolo palestinese contro l’apartheid israeliana e il massacro di civili a Gaza.
Come Comitato di Difesa avete denunciato la dura repressione di Rabat contro gli attivisti saharawi. Qual è la situazione nei territori occupati?
Dalla ripresa del conflitto nel 2020 le autorità di occupazione marocchine hanno aumentato le violenze e gli arresti. Una conferma sono le limitazioni per muoversi da una città all’altra, per uscire dai territori occupati, o il divieto d’ingresso per gli organismi internazionali con l’obiettivo di “oscurare” quanto avviene nel Sahara Occidentale. Rabat arresta, reprime e usa violenza contro qualsiasi forma di dissenso. Gli attivisti sono obbligati a restare nelle loro abitazioni senza poter uscire, nel mio caso da quasi due anni. La repressione è arrivata a un punto tale che ai saharawi restano due scelte: protestare con il rischio di essere imprigionati, o scappare con mezzi di fortuna verso le Canarie e rischiare la vita in mare.
E la situazione dei prigionieri politici saharawi detenuti nelle carceri marocchine?
Non è possibile neanche determinare il numero preciso dei prigionieri politici saharawi, a causa del completo silenzio da parte delle autorità marocchine, ma parliamo di almeno 45 prigionieri condannati, più altri attivisti detenuti senza condanna o agli arresti domiciliari forzati. Da quello che sappiamo la situazione è pessima, senza il minimo rispetto dei fondamentali diritti umani. La maggior parte dei detenuti politici è stata imprigionata a oltre mille chilometri di distanza dai territori occupati, senza alcuna possibilità di visita da parte di familiari o avvocati. Abbiamo anche numerose testimonianze di torture fisiche e psicologiche, dell’utilizzo del regime di isolamento per diversi mesi consecutivi o della negazione di cure per i malati. Per questo ho fatto appello alla comunità internazionale perché si venga a verificare le loro condizioni. In particolare dei detenuti condannati all’ergastolo non si sa più nulla, nemmeno se siano in vita.
Qual è il ruolo delle donne nella resistenza all’occupazione?
Dal 1973, nascita del Fronte Polisario, il ruolo della donna è sempre stato fondamentale nella resistenza all’occupazione. Ancora oggi, nonostante il brutale clima di repressione, sono le donne a scendere in strada, ad essere picchiate, violentate e arrestate. Questo è quello che è successo a me, ma che purtroppo avviene ogni giorno nei territori occupati. Noi donne siamo il simbolo della resistenza che continuerà, nonostante tutto, fino alla liberazione delle nostre terre.
Esistono due anime per la liberazione del Sahara Occidentale: una pacifista per una soluzione diplomatica del conflitto e l’altra favorevole alla lotta armata. Qual è la più praticabile e utile alla causa Saharawi?
Noi attivisti chiediamo la pace e abbracciamo anche i nostri fratelli marocchini, anche loro repressi e sfruttati dal governo di Rabat, come i giornalisti (Omar Radi, ndr) o i militanti del movimento di protesta del Rif. Il nostro ruolo, infatti, rimane quello di difendere il rispetto dei diritti umani per tutti gli oppressi. Appoggiamo e sosteniamo comunque la scelta del Polisario di voler difendere il proprio popolo con la ripresa della lotta armata di liberazione. Per tutto il popolo saharawi la soluzione esiste ed è stabilita da decenni anche dall’Onu: un referendum di autodeterminazione che sancisca l’indipendenza del nostro popolo. Questa per noi resta l’unica soluzione.
il manifesto, 18 gennaio 2024