Il carcere è. più di quanto si creda. specchio della società fuori dal carcere. E’ il luogo nel quale si amplificano i processi sociali: disagio personale e sociale, violenza e sopraffazione come strumenti di sopravvivenza, repressione e sorveglianza, cultura concentrazionista, ecc., sono le forme sociali del presente. L’enorme numero di suicidi in carcere sono il sintomo drammatico della crisi sociale, della deriva autoritaria e della inadeguatezza della politica.
Qui un articolo apparso su il manifesto di Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone.
Ogni cinque giorni si aamazza un detenuto nelle carceri d’Italia. Un elenco tragico che ho deciso di riportare qua di seguito, per restituire loro memoria e in alcuni casi anche giustizia (molte di queste storie le conosciamo grazie alla tenacia informativa di Ristretti Orizzonti). Indira Rustich, 37 anni, si è suicidata a Trento il 10 dicembre. Il 10 dicembre è il giorno in cui vengono celebrati i diritti umani. Si sarebbe impiccata sotto la doccia. Pare avesse da scontare poche settimane ancora di carcere.
Saidiki Oussama, Mortaza Fahradi e Cristian Mizzon sono tutti morti per propria mano nel carcere di Verona. Quest’ultimo sarebbe stato classificato come morto per overdose. Sedhawi Ahmed, Oumar Dia, Davide Pessina, Italo Calvi, un signore sconosciuto moldavo, Rosario Curcio, Luis Fernando Villa Villalobos sono tutti morti suicidi nelle galere milanesi di San Vittore e Opera.
Nel solo carcere romano di Regina Coeli si sono tolti la vita Riccardo Bianchi, Denys Molchanov, Alessandro Di Gianbattista nonché un signore libico di cui non conosciamo il nome. E poi ancora Ibrahim Ndiagne, Rodolfo Hilic, Davide Bartoli, G.Z., F.A., C.S. e F.L. (italiani), Damiano Cosimo Lombardo, Makrem Ben Rahal, O.M. e T.R. (marocchini), Erik Roberto Masala, Antonio Di Mario, Andrea Muraca, le donne Azzurra Campari, Graziana Orlaray e Susan John (tutte nella sezione femminile del carcere di Torino), Federico Gaibotti, Massimo Alfieri, Angelo Libero, Alexandre Sante de Freitas, Alexandru Lanosi, Francesco Cufone, Bessem Degachi, Abdelilah Ait El Khadir, Luca Maiorano, Massimo Del Mas, Onofrio Pepe, Giacomo Maurizio Ieni, Mbengue Babacar, Liborio Zarba e Victor Pereshshako (nel giro di qualche giorno dopo un lungo sciopero della fame si sarebbero lasciati morire nel carcere di Augusta), Pino Carmelo, Gaetano Luongo, Filippo Giovanni Corrao, Angelo Frigeri, Unici Xhafer, Aymes Dahech, Luca Di Teodoro, Michele Pellecchia, Fabio Romagnoli, Fabio Gloria, Moura Chaid e altri ancora le cui identità non sono certe e note (molte delle storie le conosciamo grazie alla tenacia informativa di Ristretti Orizzonti).
Sino al numero di sessantasette detenuti che si sono suicidati o forse anche più, in base a come viene classificata una morte dalla dinamica incerta. Tra i 67 morti suicidi nelle prigioni italiane dal primo gennaio del 2023 c’è Fakhri Marouane che si è dato fuoco nel carcere di Pescara lo scorso luglio. Era una delle vittime delle violenze brutali avvenute nel 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Aveva avuto il coraggio di testimoniare su quello che era accaduto a lui e agli altri. Chiunque lo abbia conosciuto ha raccontato di una persona profonda, interessata alla cultura e all’arte. Nessuno si immaginava che si sarebbe tolto la vita in quel modo così doloroso.
Sessantasette morti suicidi sono una enormità.
I detenuti nelle carceri italiane stanno salendo vertiginosamente e sono al momento circa 60 mila. Più o meno gli stessi abitanti di una piccola città come Viareggio. Ma se a Viareggio dall’inizio dell’anno si fossero ammazzate 67 persone, tra cui giovani e anziani, donne e uomini, italiani e stranieri non sarebbe questa diventata la prima notizia di tutti i media e giornali? E qualcuno non avrebbe cercato di indagare sulle eventuali responsabilità sociali, istituzionali, pubbliche, di fronte a numeri così fuori scala?
Ogni detenuto morto suicida è sicuramente una storia a sé che non si risolve andando alla ricerca di capri espiatori da sanzionare. Non si risolve sanzionando il poliziotto che si sarebbe distratto o lo avrebbe perduto di vista per qualche secondo fatale. Si affronta guardando alle cause sociali, culturali e strutturali del sistema penitenziario italiano. Modernizzando una vita penitenziaria che ancora si snoda con ritmi e riti premoderni; aprendo le carceri al territorio; non chiudendo le persone in cella per venti ore al giorno; non burocratizzando tutta la vita penitenziaria; non rendendo difficile ogni contributo esterno di volontari, associazioni, cooperative, scuole e università; riempiendo di vita le giornate delle persone; assumendo migliaia di giovani operatori che abbiamo la voglia e il tempo di trasformare numeri di matricola in donne e uomini con i loro problemi, le loro storie, i loro fallimenti.
Patrizio Gonnella, il manifesto, 16 dicembre 2023