L’azione della polizia è da sempre la cartina di tornasole dello stato di salute delle democrazie e il termometro dell’effettività dei diritti e delle libertà. Da tempo – e specialmente nell’ultimo anno – in Italia il barometro non segna, al riguardo, bel tempo. Torino è uno dei laboratori più significativi sotto molteplici profili. Nell’ultimo periodo il banco di prova è l’antifascismo e la sede l’Università.
Cominciamo dai fatti. Il 27 ottobre, per mettere al riparo da ogni azione di disturbo un’iniziativa del Fuan, contestata dalle organizzazioni studentesche antifasciste, la polizia è entrata in forze nel campus torinese, gli studenti sono stati manganellati da agenti in tenuta antisommossa, alcuni disabili hanno dovuto rinchiudersi in un’aula per evitare di essere travolti nel parapiglia, i parapetti delle balconate hanno rischiato di cedere sotto la pressione della massa di studenti posti in situazione di pericolo. Il copione si è ripetuto ieri, questa volta davanti al Campus Einaudi. L’occasione è stata un tentativo di volantinaggio, di nuovo da parte di uno sparuto gruppo di attivisti del Fuan, contestato da studenti e studentesse dell’Ateneo. Ancora cariche e manganellate che hanno attinto, per prime, due docenti di Giurisprudenza (Alessandra Algostino e Alice Cauduro), che, dopo essersi qualificate, si erano interposte tra gli agenti e gli studenti per evitare incidenti e che hanno riportato lesioni al capo e alle braccia. Da segnalare che le cariche sono avvenute “a freddo”, quando gli attivisti del Fuan si erano ormai allontanati, accompagnati dalla dirigente di polizia intervenuta.
Dopo i fatti alcuni spunti di analisi.
Primo. Le violenze di ieri, come quelle del 27 ottobre, hanno avuto, a monte, iniziative del Fuan – Azione universitaria, associazione di esplicita derivazione fascista, da tempo alla ricerca di spazio e visibilità in Università. Il perseguimento di tale obiettivo è stato facilitato dall’accreditamento e inserimento dell’associazione nell’albo delle organizzazioni studentesche riconosciute dall’Ateneo torinese per il biennio 2022-2024 (con conseguente possibilità di accesso a spazi e finanziamenti), deliberati in spregio della lettera e dello spirito della XII disposizione finale della Costituzione, che vieta la ricostituzione, in ogni forma, di organizzazioni fasciste, ribaltando l’originaria pronuncia dalla competente commissione (bandita associazione fascista). A questa impropria decisione – illuminante anche nel suo iter – si è affiancata ieri, in un inquietante crescendo, la protezione dell’organizzazione neofascista da parte della polizia, giunta al Campus in forze e in tenuta antisommossa insieme agli attivisti del Fuan e verosimilmente su loro richiesta, prima di qualsivoglia contestazione: dunque, non per garantire, in caso di necessità, un’equilibrata e imparziale tutela dell’ordine pubblico, ma in un’anomala funzione di “scorta” del gruppo neofascista. La storia non si ripete mai allo stesso modo ma la memoria va, inevitabilmente, alle immagini delle guardie regie che scortavano i fascisti nel 1922.
Secondo. Le cariche contro studentesse, studenti e docenti sono avvenute – come si è detto – “a freddo”, quando gli attivisti del Fuan si erano ormai allontanati e, dunque, era venuta meno – anche ammesso che fosse esistita in precedenza – ogni esigenza di tutela dell’ordine pubblico. L’intervento, dunque, è stato non solo eccessivo e sproporzionato ma radicalmente immotivato e improprio. Non è chiaro se sia trattato di un intervento preordinato o di un’iniziativa autonoma degli agenti rimasti momentaneamente privi di comando (al campus interviene la polizia) ma le due ipotesi si equivalgono per gravità: se, infatti, la preordinazione rimanderebbe a una strategia repressiva politicamente orientata, l’azione “spontanea” decisa in loco rivelerebbe una non meno inquietante predisposizione delle forze di polizia ad agire “con le mani libere” nella certezza di una copertura istituzionale.
Terzo. Non a caso l’ultimo episodio è avvenuto all’indomani della presentazione del disegno di legge governativo che incrementa la repressione del dissenso e del conflitto sociale (con previsione di nuove fattispecie di reato e aumenti indiscriminati delle pene) e sposta l’asse del governo della società verso gli apparati militari e le forze di polizia a cui, tra l’altro, viene consentito in maniera illimitata il porto di armi personali (il governo della paura e l’alibi dell’insicurezza). Ciò evidenzia con chiarezza – e in modo sinistro – che non siamo di fronte a episodi gravi ma isolati bensì a un deterioramento complessivo del quadro politico e all’attacco sistematico a diritti fondamentali.
Quarto. A fronte di ciò le reazioni delle forze politiche (concretatesi, ad oggi, in un intervento nel dibattito alla Camera e in una interrogazione parlamentare) e delle istituzioni universitarie sono deboli e superficiali. In particolare spicca la latitanza dei vertici dell’Università torinese, che si sono limitati a un anodino comunicato di solidarietà a chi ha riportato lesioni e di condanna di ogni forma di violenza e che, a tutt’oggi, ancora non hanno chiarito in modo esplicito i presupposti dell’intervento della polizia all’interno dell’Ateneo il 27 ottobre (che da fonti di polizia sono riportati insistentemente a una espressa richiesta del rettore). La cosa è particolarmente grave anche perché svilisce il ruolo dell’Università come centro di cultura e di coscienza critica del paese, per questo – e non per privilegi medioevali – titolare di uno status di particolare autonomia (riconosciuto e tutelato dall’articolo 33, ultimo comma, della Carta fondamentale e oggi impunemente calpestato).
C’è di che riflettere ben oltre il caso torinese.
Livio Pepino, Volere la luna, 7/12/2023