L’onda nera che vuole riaprire i manicomi …di Marco Rovelli

C’è una corrente di psichiatria medicalizzante che non vede l’ora di disfarsi definitivamente della legge Basaglia. In questa legislatura, nera, c’è il rischio che le occasioni per farlo non manchino ed è bene essere avvertiti. Mi è capitato recentemente di ascoltare il pensiero di uno psichiatra dirigente di un’importante Azienda Socio Sanitaria Territoriale – non ne citerò il nome perché si tratta di un pensiero privato, che assume però rilevanza perché esprime un sentire diffuso. Secondo questo medico è giunta l’ora di superare la legge Basaglia, oltre che di riaprire gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari – due dispositivi giuridici dovuti alla stessa «ideologia antipsichiatrica» che disconosce la scientificità della psichiatria in quanto scienza medica. Per far ciò questo psichiatra propone un bel referendum abrogativo, il quale, vista la situazione politica attuale e la percezione dell’opinione pubblica, sarebbe certamente vincente. Viva l’onda nera che riapre i manicomi!

Coerentemente, lo psichiatra si dice fermamente convinto che una certa minoranza di pazienti psichiatrici dovrebbe essere segregata a vita nei manicomi, in quanto incurabili e non riabilitabili.
Ci vuole un’altra legge non ideologica, dunque. Ma cosa significa «non ideologica»?

Significa ciò che è massimamente ideologico. La psichiatria è una branca della medicina, e una nuova legge, dicono, dovrà essere basata sull’evidenza scientifica, sui dati epidemiologici, sulla nuova psicopatologia. L’evidenza scientifica, ovvero – come chiosava un altro psichiatra – «il cervello è un organo da curare come tutti gli altri». Il disagio psichico è insomma una questione di cervello rotto, come si diceva a gran voce negli anni Novanta; la «malattia mentale» è determinata da cause biologiche, organiche, ovvero esiste una relazione causale lineare tra danno del sistema nervoso centrale e malattia mentale. La psichiatria della controriforma è fondata su un modello centrato sull’individualizzazione della vicenda umana: «una vicenda privata», come ha detto Benedetto Saraceno, «in quanto avviene nei geni, o nel cervello, o nella psiche, comunque sia in un privato mai influenzato da un contesto, che invece è la fonte primaria dei nostri strumenti di intervento».

Ma il «cervello rotto» è davvero un’evidenza scientifica? Anzitutto, i dati epidemiologici invocati dallo psichiatra dirigente vanno in tutt’altra direzione.

Esiste una quantità enorme di studi epidemiologici che analizzano il ruolo dei fattori ambientali nella determinazione delle malattie mentali, dal ruolo del contesto familiare nello sviluppo della schizofrenia alla funzione protettiva del contesto socio-culturale rispetto all’evoluzione e all’esito della schizofrenia: le variabili macrosociali e i contesti culturali ed economici, così come gli eventi sociali e psicologici avversi, sono tutti fattori che interagiscono con le strutture neurobiologiche dell’individuo.

E la psicopatologia? Un accademico come Mario Maj, non certo un basagliano, afferma con nettezza che i «disturbi mentali» non sono esiti di cause determinabili come le malattie organiche, ma sono «il prodotto di un’interazione complessa di una molteplicità di fattori»: la ricerca scientifica dunque non può trovare la causa della schizofrenia, ma deve lavorare su «costellazioni di fattori genetici e ambientali»; e, per quel che ne sappiamo oggi, c’è un rapporto solo probabilistico e non lineare tra processi biologici e esito schizofrenico, perché decisivi sono i processi psicologici e culturali. Questo significa decretare l’esaurimento dell’antico modello (kraepeliniano) della psichiatria medicalizzante, quello alla base dei DSM, i manuali diagnostici dei disturbi mentali, e rivalutare l’approccio fenomenologico di Jaspers – e Basaglia, va ricordato, era di impostazione fenomenologica.

Questo è quanto dice la psicopatologia basata sulla ricerca neurobiologica più avanzata. E questo dimostra come pensare di tornare a una psichiatria medicalizzante e segregativa è non solo un’ideologia perversa, una pratica di controllo sociale orrenda, ma è anche, contro le sue stesse premesse, antiscientifica.

Marco Rovelli, il manifesto, 1/11/2023

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