Nel 2022, 85 persone detenute in carcere si sono tolte la vita, 80 uomini e 5 donne, su una popolazione di circa 55.000 detenuti: il dato più elevato degli ultimi dieci anni. Nel 2010, il Comitato Nazionale per la Bioetica rivolse l’attenzione al fenomeno dei suicidi in carcere, considerando i dati allarmati allora a disposizione del Comitato per il 2009: 72 suicidi su una popolazione di 60.000 detenuti. Dunque, a distanza di oltre un decennio, la questione è ancora lì, in tutta la sua drammaticità.
Nell’aprile scorso, Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, poco prima della scadenza del suo mandato ha pubblicato uno studio di grande importanza sui casi di suicidio del 2022 (aggiornati al 2023), più la sequenza temporale dal 2012 al 20. Se ne ricava un quadro non molto diverso dal 2009, con al centro la più alta prevalenza i suicidi fra le persone appartenenti alla cosiddetta «detenzione sociale». Basti il dato del 23% delle morti volontarie di persone senza fissa dimora).
All’interno della detenzione sociale, gli stranieri costituiscono una sottofascia importante (il 42% dei casi). Volendo approfondire le ragioni della loro specifica vulnerabilità, vengono in evidenza la lontananza dei cari e in conseguenza le maggiori difficoltà di comunicazione telefonica; in più, per la precarietà di domicilio e di lavoro, se non per la loro assenza, hanno maggiore difficoltà a ottenere i permessi di uscita dal carcere e le misure alternative.
I suicidi si concentrano nell’area di «media sicurezza», a fronte di assenza di casi nel 2022 nel circuito di «alta sicurezza», dove sono ristrette le persone con reati più gravi e per pene più lunghe. Anche questo dato sembra riconfermare in controluce la maggiore esposizione dei detenuti e detenute di una fascia ben definita: in condizioni di minorità sociale, di limitato spessore criminale con pene più brevi.
E infatti, sempre guardando ai dati del 2022, ben trentotto persone che hanno rinunciato a vivere avevano una pena residua inferiore a tre anni, e cinque avrebbero terminato la pena entro l’anno in corso. Un dato tanto più scioccante guardando alla situazione generale del carcere: nel gennaio 2023, 1451 persone erano ristrette per scontare una pena inferiore a un anno, mentre altre 2598 scontavano una pena compresa fra uno e due anni. Per questi, è evidente l’impossibilità di qualsiasi programma di reinserimento/integrazione sociale. Perciò, annota Il Garante, «il tempo della permanenza in carcere sarà soltanto tempo vuoto, interruzione di una vita a cui tornare forse in situazione soggettiva peggiore, certamente con maggiore difficoltà».
Un tempo vuoto per persone che hanno scarsi, se non nulli, riferimenti esterni, una scarsa assistenza legale, «molte volte neppure strumenti di comprensione del senso del loro essere in carcere e delle possibilità che l’ordinamento prevede». È un tempo svuotato di significato anche per l’istituzione, rispetto alla (mancata) finalità costituzionale di rieducazione del condannato/a. Un’ultima informazione inquietante: 32 persone decedute sono state classificate nel 2022 come «morti da accertare». Torna alla mente Susan, la donna nigeriana morta nell’agosto scorso nel repartino psichiatrico del carcere di Torino in seguito al digiuno prolungato. Un caso indecifrabile per certi versi (volontà di morire? sciopero di protesta?), che proprio per questo testimonia la «invisibilità» di Susan allo sguardo impersonale dell’istituzione. In ultima analisi, i suicidi in carcere parlano di una crisi profonda di sistema, non solo penale. Parlano di noi, in una società che sempre più invoca la funzione di messa al bando simbolica del carcere. Prendiamo sul serio l’indicazione del Garante, per un diverso discorso pubblico sulla pena.
Grazia Zuffa, il manifesto, 25 ottobre 2023