Riportiamo qui lo stralcio finale di un articolo di Emiliano Brancaccio, “Perché ai capitalisti non piace più il green?”, apparso su il manifesto, mercoledì 27 settembre.
Nell’articolo si interroga sui recenti cambiamenti di rotta delle imprese, della politica e di parte dell’opinione pubblica sulle “politiche green”. CI pare di cogliere risposte chiare e utili per comprendere e agire anche in ambiti diversi.
[…] Ma per quale ragione la fazione anti-ecologista del capitale sta riguadagnando posizioni un po’ ovunque rispetto a quella più ammiccante verso i temi dell’ambientalismo? La risposta è agevole quanto amara. I capitalisti nemici dell’ambiente stanno pescando consensi in una classe lavoratrice frammentata e già martoriata dall’inflazione, che magari condivide pure gli allarmi sul cambiamento climatico ma che, ciò nonostante, appare sempre più insofferente verso i costi della transizione ecologica. Con qualche ragione, a ben vedere. Uno dei più gravi difetti delle politiche ambientali di questi anni è che spesso queste sono state finanziate con aumenti tariffari uguali per tutti indipendentemente dai redditi, con imposte di tipo regressivo, e con eliminazioni dai listini dei prodotti tradizionali più a buon mercato. Insomma, con misure a carico dei più poveri. Una vera beffa, considerato che i consumi a più alta emissione di inquinanti sono quelli di lusso.
In questo scenario, c’è il rischio concreto che nei circoli dell’alta finanza la questione ecologica perda il suo glamour. In quegli ambienti, la linea che è stata di Trump e che oggi è di Sunak potrebbe diventare sempre più rispettabile. E faremmo male a stupirci se prossimamente, a Davos, venisse persino invitato qualche negazionista del cambiamento climatico al posto di Greta Thunberg.
C’è qualche insegnamento che si può trarre da questa evidente fase di crisi delle politiche ecologiste? Uno di essi, piuttosto ovvio, è che la transizione ecologica può trovare il consenso delle masse solo se i suoi costi sociali vengono fatti ricadere non più sui salari ma sui profitti e sulle rendite. In altre parole, ci vorrebbe quella che potremmo definire una «legge di caduta ecologica del saggio di profitto». Una caduta capace di anticipare il rischio di catastrofe climatica.
Ci potremo arrivare con il libero mercato, come i circoli del capitalismo ecologista talvolta amano suggerire? Con buona pace delle fantasiose storielle sui benefici della cosiddetta «finanza verde», la risposta è negativa. Per quanto turbi gli animi dei ricchi, ecologisti o meno che siano, la soluzione potrà essere una soltanto: una versione, inedita e innovativa, di piano collettivo.