Abbiamo ricevuto da Bruno Guglielminotti, noto sociologo biellese, questa riflessione sul 41 bis, lo ringraziamo e la pubblichiamo.
Il regime della 41bis richiama alla mente la condanna che colpì nel Medioevo il conte Ugolino, murato vivo con i suoi figli, accostamento giustificato dal fatto che la legge in questione non condanna a morte ma, ipocritamente, condanna a vivere, murando vive le persone costrette a un isolamento in uno spazio tombale di meno di quattro metri quadri. Appare dunque evidente che in carceri di questo tipo la tortura e la condanna a morte sopravvivano di fatto, camuffandosi tuttavia e assumendo unicamente apparenze più accettabili, in realtà non meno crudeli nel loro dilazionarsi indefinitamente nel tempo, tanto da svilire e da stroncare l’esistenza di chi sopravvive in una sorta di braccio della morte.
Appare scontato che l’introduzione di tale normativa ha evidenziato soprattutto la preoccupazione di ottenere il consenso di una parte importante della popolazione, la cui coscienza collettiva manifesta bisogni primari di protezione e di sicurezza, nonché rappresentazioni altrettanto collettive di sentimenti irrazionali di condanna e di vendetta.
Com’è noto, la presenza del carcere normato dalla legge 41 bis ha suscitato le reazioni severe e le sanzioni da parte delle istituzioni dell’Unione Europea, già da tempo molto critiche nei confronti di un sistema carcerario afflitto nel suo complesso da gravi problematiche mai risolte, che hanno finito per produrre certi sottosistemi contraddistinti da condizioni detentive di particolare durezza e dunque con una connotazione meramente repressiva.
Le reazioni dell’Unione Europea sono giustificate infatti dalla constatazione che il costrutto formale della 41 bis lascia in disparte ogni finalità educativa e riabilitativa, tanto da rendere questo tipo di carcere la massima espressione di istituzione totale, esasperando il suo carattere di sistema chiuso, autoreferenziale che esula dalle esigenze di controllo sociale per accentuare la sua connotazione di controllo del sociale.
In questo carcere la severità sconfina troppo facilmente e quasi automaticamente nella spietatezza di un potere che di fatto afferma, ancora una volta, la primitività e l’irrazionalità del più forte e che, se potesse, riproporrebbe per il sistema carcerario italiano, il modello del panopticon, quando il culto dell’efficienza, confusa con un malinteso senso di efficacia, aveva prodotto quegli effetti perversi che hanno indotto ad abbandonare tale modello repressivo.