Proseguiamo il dibattito sulla psichiatria innescatosi dopo l’omicidio della psichiatra Barbara Capovani. Riportiamo un intervento del filosofo Pier Aldo Rovatti apparso nella rubrica che tiene per Il Piccolo di Trieste.
Il caso specifico della psichiatria è abbastanza eloquente. Ci mostra che la salute pubblica va verso la specializzazione con tanti saluti alla sanità territoriale e a un’idea di cura comunitaria. Il medico è ormai di norma identificabile con uno specialista capace di selezionare un danno localizzabile nel nostro corpo e di provvedere a una opportuna medicalizzazione. E così tutto il sistema sanitario tende a organizzarsi attorno a una visione specialistica della malattia. Né i professionisti né quei dilettanti impersonati da ciascuno di noi con i nostri malesseri si ribellano a un simile inscatolamento tecnicistico. I medici di base hanno uno scarso potere, certo contano ma molto poco: alcuni vorrebbero sottrarsi a questa chiusura culturale, ma la loro voce sembra farsi sempre più fievole.
Il caso della psichiatria è esemplare perché pare che non ci sia scelta e ci si debba uniformare a una visione della medicina decisamente individualistica come se la parola “territorio” fosse destinata a scomparire con tutte le buone pratiche che essa comporta.
Basaglia? La legge 180? Stanno diventando ricordi, roba da archivio, al massimo da antologia: tracce di un passato che ormai possiede pochissimi punti di tangenza con il presente della medicalizzazione.
Parlando con uno dei più autorevoli eredi della “rivoluzione” basagliana, cioè Peppe Dell’Acqua, salta fuori l’esempio a dir poco inquietante della “porta chiusa”, quella porta che prima restava aperta e che ora viene invece chiusa: dentro, dietro questa porta sta lo specialista che riceve il suo paziente in una sorta di separazione tecnicistica che dovrebbe apparire normale, ovvia, perfino una garanzia di serietà e di qualità dell’esperienza medica.
Così, il cosiddetto territorio è destinato a perdere qualunque valore: niente comunicazione, niente “comunità”, niente lavoro di gruppo o di sostegno della socialità che può stringersi attorno al portatore di disturbo (!), il quale, anzi, viene tendenzialmente scollato dal suo intorno sociale, lasciato quasi sempre a sé stesso, alla sua famiglia se ce l’ha, alla sua individuale sofferenza.
Il medico, lo “specialista”, sta lassù, anzi dietro la sua porta, e quando tu esci da quella porta, con un foglio in mano non sempre decifrabile, resti come stordito tentando di ricordare le parole che ti ha detto e che non ti risultano così chiare. Avresti voglia di tornare indietro e chiedere qualche altra parola di spiegazione, ma non lo fai.
Sto disegnando un quadro troppo buio? Certo ci sono eccezioni e forse quella porta resta un po’ aperta, tuttavia sembra evidente che l’aria che tira, la “tendenza” che muove l’attuale salute pubblica nella sua organizzazione predominante, è proprio di questo genere.
D’altronde, è lo stesso tipo di aria che si percepisce nell’intera società di oggi: difficile illudersi che in essa prevalga la socializzazione o uno spirito di comunità, poiché risulta palese che ciò che domina è piuttosto un atteggiamento individualistico, un po’ dovunque. La medicina, da salute pubblica sta trasformandosi in un rapporto individuale e individualizzante tra tecnico e paziente.
Più di dieci anni fa ho avuto l’occasione di collaborare alla promozione di una collana di libri intitolata “180 Archivio critico della salute mentale”: saggi di approfondimento storico e critico, narrazioni di esperienze personali. Adesso, oltre a constatare il bilancio positivo di questa piccola iniziativa, sarebbe proprio il momento di rilanciarla per contrastare il clima di chiusura e restrizione in cui stiamo galleggiando, sia per quanto riguarda la psichiatria sia per ciò che concerne l’intera salute pubblica. Anzi, proprio nel regime di porte chiuse che si sta affermando, dovremmo opporci a questa aria alquanto malsana che rischiamo tutti quanti di respirare a danno della nostra salute.
Trieste è stato un faro per molti anni. Oggi, facendo leva sulle vicende positive che la città ha potuto vivere, dovremmo in ogni modo tentare di impedire che il faro si spenga o produca soltanto un filo di luce, quasi annullato dal brillare incontrastato dello specialismo medico. Dovremmo cercare di riaprire tutte le porte che si sono chiuse a spese del territorio della salute e della cura.
da il Piccolo