Un ricordo di Franco Rotelli, lo psichiatra che odiava i manicomi

Giovedì 16 marzo è morto Franco Rotelli, collaboratore di Franco Basaglia. Riportiamo un articolo di Beppe Battaglia e Sara Manzoli apparsi su NapoliMONiTOR per ricordarlo.

Verrà un giorno in cui la civiltà avanzerà
e i debiti saranno pagati in modi diversi,

da quello di essere rinchiusi stupidamente
a fare cose stupide,
per enne anni stupidi di vita.

Giovedì mattina ci ha lasciati Franco Rotelli. Il vuoto della sua assenza verrà percepito non solo nel fragile universo della salute mentale, ma da tutte le persone e le realtà che riflettono e lottano contro la violenza delle istituzioni totali. Il suo pensiero critico su questi mondi è sempre stato solido e resistente, dall’inizio alla fine delle sue battaglie, senza mai fare distinzione tra un manicomio o un’istituzione post-manicomiale e un carcere o qualsiasi altro luogo di costrizione umana.

Dietro le mura nascono soltanto dei mostri.
Dietro le mura non può nascere mai niente di buono
e bisogna sapere che è sempre e comunque sbagliato.
(da un’intervista di Sara Manzoli a Franco Rotelli)

*     *     *

L’internamento, la residenzialità e l’esclusione sono consuetudini a cui siamo ormai abituati, in una società che crede che l’unica soluzione possibile sia isolare il nemico, il delinquente, il pazzo, l’immigrato. Franco Rotelli non si è accontentato della chiusura dei manicomi. Ha continuato a riflettere su queste istituzioni immaginandole davvero più vicine, davvero che stanno accanto, davvero che vanno incontro e davvero fatte di persone che si preoccupano di altre persone, seminando il suo pensiero.

Se si chiude un manicomio non sparisce la follia, ed è necessario ricordare che i matti continuano a esistere. Se si abbatte un’istituzione inutile e dannosa bisognerà inventarne un’altra veramente vicina e utile alle persone, che non abbia bisogno di rinchiudere e violentare, ma che abbia lo scopo di dare una mano alla gente, la cui potenza dovrebbe essere quella di aiutare e non di reprimere. Sembra banale, ma invece è molto complesso, tanto più in luoghi volontariamente svincolati dai rapporti con la città e costruiti nella maggior parte delle volte fuori dai centri urbani.

Necessario sarebbe immaginare che al posto del presunto sapere degli addetti ai lavori ci fosse un incontro umano tra sapienza tecnica e volontà politica di intraprendere determinate direzioni; tenendo sempre presente che la narrazione corale della legge 180 il più delle volte risulta miope, non tenendo in considerazione il contesto sociale in cui quella rivoluzione fu generata, e che in questo momento storico i tentativi di abbattere determinate istituzioni avvengono in una società sempre più individualista, razzista, indifferente e presuntuosa.

IL MEDICO E IL ROSETO

Ho due immagini forti di una persona straordinaria che, per caso, faceva il direttore generale della Asl di Caserta. Un giorno, alle sette del mattino, l’ho trovato a curare il roseto tra i viali della Asl. Un direttore generale che fa il giardiniere non poteva non stupirmi. Questo è il mio mestiere, mi disse: curare la bellezza per sabotare l’industria farmaceutica. E non è tutto, aggiunse. Accompagnandomi all’interno della piccola clinica psichiatrica mi mostrò come la bellezza si dispiegava ancora nei colori variabili di corridoi e camerette, persino nel suo incedere lento, sostando di tanto in tanto per salutare qualcuno, o ragionando ancora sul perché di quel colore o di quell’arredo.

In una cameretta vuota, pulitissima e molto ordinata, mi mostrò dettagli che non ci si aspetta di trovare in una clinica, a cominciare dagli odori gradevoli anch’essi, piuttosto che piegati alla puzza di alcol denaturato o al dominio di farmaci traboccati, propri di tutti gli ambienti ospedalieri. Chi l’ha detto che la camera di una persona sofferente, o i locali comuni, devono essere arredati con mobili Ikea? Chi l’ha detto che al soffitto devono esserci lampade volanti piuttosto che vetro di Murano? Persino tutto l’apparato sanitario, disposto solitamente sulla testata del letto, era protetto da una parete di legno a scomparsa per allontanare quanto più possibile l’idea sanitaria. Ecco, mi disse, la salute riposa più nella bellezza condivisa che non in mille bombe chimiche dell’industria farmaceutica.

Ogni ulteriore incontro, anche conviviale, con Franco, mi restituiva una persona competente e socievole ma che sapeva porgersi con semplicità estrema anche a profani in materia tra i quali mi collocavo. L’altra fotografia riguarda il momento del congedo, quando decise di fare ritorno alla sua Trieste.

I suoi colleghi avevano organizzato per lui una serata di saluto alla Città della Scienza di Bagnoli. Ero appena uscito dal carcere di Eboli, dove prestavo la mia opera di volontario, quando mi ricordai di quell’invito. Non volendo arrivare a mani vuote per salutare un amico che andava via da Napoli, trovai per strada un negozietto che aveva ciò che andavo cercando.

Alla Città della Scienza tutti i suoi colleghi si alternarono sul palco per supplicare l’amico di non partire, di restare qui con noi. Non mi parve vero salire a mia volta col mio misterioso sacchetto di plastica. Il nostro egoismo ci induce a tentare di fermare la tua decisione, gli dissi, ma io penso sia giusto che tu vada dove ti porta… il vento. Perciò ti auguro buona strada, con la consapevolezza che ti porteremo sempre con noi, insieme alle tante cose che ci hai donato con gratuità. Dopo che hai conosciuto Napoli, dopo che hai imparato ad amarla a dispetto degli stereotipi, ho pensato di farti dono di una piccola cosa che immagino apprezzerai anche lontano da noi. Una piccola cosa che ti dice il nostro affetto e ti aiuterà a elaborare le nostre assenze.

Non dimenticherò mai il suo abbraccio e gli occhi umidi tra gli applausi, dopo che aveva aperto il sacchetto e tirato fuori la caffettiera napoletana che avevo preso per lui.

Oggi ti saluto nuovamente, Franco. Fai buon viaggio, sui petali di ogni rosa quella goccia di rugiada ci parlerà di te.

Beppe Battaglia / Sara Manzoli, NapoliMonitor, 19 marzo

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