I misfatti della Procura e della Magistratura torinesi proseguono. Da sette mesi ragazzi incensurati sono sottoposti, dopo il carcere, alle misure cautelari degli arresti domiciliari per una manifestazione davanti all’Unione Industriale. Sproporzione dei provvedimenti, si direbbe, ma in verità siamo davanti ad una visione dell’ordine pubblico come intimidazione, repressione preventiva, vendetta dello Stato. A questo ci hanno abituato, da tempo, la Questura e la Procura torinesi: un modello repressivo consolidato nel tempo. Qui riportiamo un breve articolo informativo di Marco Vittone apparso su il manifesto del 15 dicembre.
Torino, da sette mesi agli arresti per i tafferugli davanti all’Unione Industriale.
Hanno vent’anni, sono studenti universitari e tutti incensurati, ma da 7 mesi sono sottoposti a misure cautelari – prima in carcere poi ai domiciliari – per resistenza a pubblico ufficiale durante una manifestazione avvenuta il 18 febbraio scorso. Quella contro l’alternanza scuola-lavoro, che ebbe il culmine di tensione davanti alla sede dell’Unione Industriale di Torino con un assalto da parte di un gruppo di manifestanti al cancello d’ingresso dell’edificio di via Vela, presto presidiato dalle forze dell’ordine. I quattro sono Emiliano, Jacopo, Francesco e Sara, agli arresti dal 12 maggio.
Ciò che colpisce è la sproporzione tra i fatti – reati e protagonisti compresi – e le misure cautelari conseguenti. «Visto che stavano per decorrere i termini delle misure, a inizio di novembre, la procura di Torino – spiega l’avvocato Claudio Novaro che difende due dei giovani, mentre gli altri due sono rappresentati da Valentina Colletta – ha stralciato la loro posizione, distinguendola dagli altri imputati, portandoli così a giudizio immediato. Il processo inizierà il primo febbraio e i quattro ragazzi non passeranno dall’udienza preliminare come toccherà agli altri il 9 gennaio. La situazione è paradossale ed è purtroppo un tratto distintivo del modello torinese, si veda anche per la repressione dei No Tav, che si è ormai costituito come laboratorio di dispositivi repressivi. Altrove non si ricorre a misure cautelari così gravi per fatti simili. Lo schema è lo stesso: si sovradimensiona un fatto, lo si decontestualizza e non si tiene conto che sono ragazzi giovani e incensurati, anzi se ne rafforza la presunta pericolosità sociale. Prima ne sono stati tenuti in carcere 3 su 4, poi due hanno ottenuto i domiciliari. Per l’ultimo, abbiamo faticato un po’ e abbiamo dovuto aspettare due mesi».
Le manifestazioni dello scorso febbraio erano state indette dopo le morti, durante gli stage gratuiti, di due giovani studenti, Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci, a Udine e Ancona. Una mobilitazione nazionale che contestava l’alternanza scuola-lavoro introdotta dal governo Renzi. Negli scontri davanti all’Unione Industriale, quando i carabinieri chiusero il varco, un gruppo di studenti colpì il cordone con aste di cartelli e bandiere. «La ragazza, Sara, non partecipò – precisa Novaro – al breve scontro ma era al megafono e le è stato riconosciuto il concorso morale. Ricordiamo il precedente di Dana Lauriola che aveva preso due anni per aver parlato al megafono».
Le «Mamme in piazza per la libertà di dissenso» hanno scritto sui social: «Sicuri che questa sia la giustizia per quelle 4 giovani vite? La porta si è chiusa, resta solo l’attesa, solo la speranza che finisca, che qualcuno decida che può bastare. Dimenticati, lasciati nell’oblio del non sapere, dell’indefinito. La porta della libertà si è chiusa senza processo, senza essere giudicati colpevoli».
Se per il legislatore – sottolinea, infine, l’avvocato Novaro – non deve essere applicabile la custodia in carcere se si ritiene che, all’esito del giudizio, «la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni», per capire la sproporzione delle quattro misure «basta ricordare che in trent’anni in tema di manifestazioni di piazza a Torino mai si è superata, all’esito del giudizio, la pena di tre anni di detenzione».
il manifesto, 15 dicembre 2022