Letteratura. Nella grammatica della gentilezza. …di Kadija Abdalla Bajaber

Riportiamo il testo, apparso su il manifesto, che l’autrice keniana ha letto a Letterature il 18 luglio. L’autrice ha appena pubblicato Dimora di ruggine, per 66thand2nd.

Virginia Woolf diceva che molte persone trovano l’occasione di leggere Proust soltanto quando sono ammalate e dunque costrette a casa. Quando siamo obbligati a prenderci una pausa, riusciremo forse ad apprezzare l’opera di uno scrittore che aveva così tanto da dire sull’importanza di ritagliarsi il tempo per apprezzare la vita. Proust ha una passione per i dettagli che altri potrebbero considerare futili o superflui, perché solo tramite una profonda consapevolezza della mortalità, del tempo e dell’importanza di ritagliarsene è davvero possibile sentire e addolcire la vita.
Certe persone fanno esperienza del mondo attraverso certe sensazioni, e perdere quelle sensazioni significa allora perdere quei mondi, un modo cioè di dimenticare irreparabilmente. E certe persone sono abituate a essere dimenticate dal mondo ma, per me, dimenticare me stessa e la mia gente è un tormento. Allora scrivo, non solo per scoprire il nuovo ma per mostrare a me stessa e al mio mondo le strade che abbiamo percorso nella storia e le strade che possiamo ancora percorrere. E per sentire, sentire sempre, con ogni facoltà a mia disposizione.

Non avevo mai letto Proust prima della pandemia e mi stupisce in che modo si può arrivare a sviluppare filosofie simili in circostanze completamente diverse, in mondi completamente diversi; lui conduceva tutto il ragionamento intellettuale tra sé e sé, in solitudine. Non gli importava quanto fossero intelligenti i suoi interlocutori, a lui interessava la loro gentilezza. Era convinto che in una buona conversazione non bisognasse imporre il proprio ego sull’altra persona o le idee esaltanti di sé stessi e del proprio intelletto sugli altri, ma bisognasse ascoltare e lasciarsi coinvolgere dai dettagli, prestare attenzione. Essere onesti ma essere gentili. Era convinto che l’antipatia per gli altri spesso fosse dovuta a un livello di connessione insufficiente, perché bisogna conoscersi in profondità per poter prendere una decisione sprezzante come l’antipatia.
Tutti dicono che non c’era nessuno come Proust prima che Proust fosse Proust; io provo a immaginare come un europeo non praticante possa essere così simile, per sensibilità e filosofia, a una persona nata in una società e in un’epoca completamente diversa: i miei pensieri sono guidati da Dio e dalla comunità, non ho mai definito il mio pensiero proustiano e non ho formato la mia sensibilità su Proust.
Proust era invece guidato dal pensiero e dalla sensazione dell’arte, da Ruskin, dal tentativo di ricreare sé stesso attraverso i maestri dell’arte che l’avevano ispirato, attraverso ciò che «i maestri sentivano»; allora, alla fine, a prescindere dalla presenza o dall’assenza di fede religiosa, il punto è scegliere di credere. Non necessariamente in una religione organizzata, ma aprire gli occhi alla vita.

Vivere è un atto di fede, che sia fede riposta in noi stessi o negli altri, nel mondo che noi vediamo o nel mondo che gli altri vedono, il mondo che Proust o io o voi vogliamo vedere. Un uomo può avere un cuore avventuroso se lo infonde di passione e lo condivide generosamente, riconoscendo la vanità e il pensiero egoista, l’intelligenza performativa, nella natura e nella società, cercando ciò che conta; scoprire cosa è importante qui e ora, scoprire l’ignoto dentro di noi. E gioirne.
Molti scoprono di aver percorso lo stesso viaggio del protagonista di Proust oppure ritrovano i suoi protagonisti, inaspettatamente, nei propri. A volte ciò che scriviamo non riguarda tanto chi siamo quando scriviamo, ma chi inaspettatamente diventiamo scrivendo, cosa scopriamo di noi stessi e cosa finiamo per costruire.
Vogliamo un mondo migliore perciò lo annunciamo profeticamente, non sempre intendiamo profetizzare né siamo sempre consapevoli di profetizzare, ma scopriamo che raccontando una storia diventiamo qualcosa. Pur senza sapere, crediamo, finché all’improvviso tutto va al suo posto, strappandoci un: «Oh».
Cerchiamo significato e lo troviamo all’infuori della nostra destinazione. Essere riconosciuti dai detentori del gusto mondiale ha il suo fascino e si diventa scettici, poi si cerca l’amore, si insegue l’amore così come ce l’ha insegnato il mondo, e a volte funziona e a volte si è scettici; essere scrittori significa sperare nel meglio pur essendo scettici.

E, in fin dei conti, ciò che colpisce al cuore è ciò che fa splendere la pagina. La vera connessione non è solo tra le nostre creazioni e noi, ma nelle connessioni che le nostre creazioni instaurano con il mondo. Perché altrimenti Proust sarebbe così amato? Perché parla di una ricerca – e noi, tutti, siamo perenni cercatori. Proust leggeva i giornali e gli orari dei treni con un interesse empatico e immaginativo, dimostrando così come ciò che potrebbe essere un dettaglio esangue, insensibile, persino noioso, può diventare terreno fertile per una storia. Questo vale non solo per la scrittura, ma per il pensiero, per l’emozione, non c’è bisogno di essere Proust, uno scrittore, e nemmeno un lettore, per prendersi una pausa e addolcire la vita infondendole gentilezza e attenzione duratura. Ad amici e sconosciuti, Proust chiedeva di tutto, come si alzavano dal letto e come andavano al lavoro, chiacchiere – ascoltava, domandava, credo che fosse innamorato dell’idea di restituire bellezza e importanza ai momenti che trascuriamo. E proprio l’irrequietezza, la generosità, il coraggio e sì, persino la miseria e la gioia, sono fondamentali nella sua opera.
Non è un monologo narcisista tra lo scrittore e la pagina, comprata e venduta come se fosse detersivo in polvere – quando la scriviamo, la pagina deve avere significato. Se significa qualcosa per noi, allora probabilmente sarà così anche per qualcun altro. Fosse anche solo una persona.
Non ho letto quanto ci si aspetterebbe da molti scrittori, né durante la pandemia, quando non c’era tempo, né durante l’infanzia, quando dovevo comprendere l’estrema solitudine della coscienza, né durante l’età adulta, quando ero troppo occupata a rimettermi al passo con le mie ferite. Abbiamo vissuto in realtà differenti, qualcuno poteva concedersi di rallentare e fornire arte e letteratura alla propria mente.
Non posso spiegare, qui, perché io non ho potuto. Sono nata con privilegi e fortune e benedizioni che hanno permesso a me e alla mia famiglia di soffrire meno di altri, ma non ho trovato riposo e tregua, non è stato un periodo in cui trovare crescita o nutrimento nella lettura. Stavano succedendo troppe cose a me e alla mia famiglia.

Ammiro la disciplina e la dedizione di chi, pur avendo avuto simili distrazioni e problemi, ha trovato il coraggio di metterli da parte per sedersi e ricordare e pensare e crescere, io non riuscivo; se trovavo il tempo di leggere, una rarità, era ancora più raro che riuscissi a metabolizzare le letture, che mi fossero in qualche modo utili. I libri possono riaccendere la vita dentro di noi, leggere può avere un ruolo determinante nel nostro sviluppo spirituale. Quando non leggevo, provavo a dimenticare, perché sapevo che ricordare è spesso una trappola, più che uno spazio di solitudine e pace.
A volte alcuni ricordi sepolti a lungo, anziché strisciare in superficie, esplodono come una mina sotto al piede. Quando leggo ciò che i lettori intendono per momenti proustiani, ritrovo sempre una sensazione di delicatezza, calore, infanzia cristallizzata come zucchero al limone. Nel mio caso è la fascinazione per i dettagli. Un viaggio in macchina lungo Tudor Creek, i finestrini abbassati, lo sguardo limonato del sole pomeridiano, l’odore pungente delle foglie fruscianti. I pomeriggi di Eid-al-Fitr; tè alla menta e rotolo di pan di spagna farcito di gelato a casa di mio nonno; sensazioni così intense che non riesco a ricordare se io fossi felice o infelice, solo calore.

Certi momenti non devono essere importanti o necessari perché siano amati. È rarissimo per me ricordare in questo modo. Perciò è una benedizione quando un ricordo consiste soltanto in un bicchiere caldo e in una torta fredda. Forse così è il momento proustiano: gentile. Crescendo, avrei voluto concedermi la gentilezza che mi negavo quando il tempo rallentava non per amore ma per malinconia. In Proust, non sono le fitte di malinconia egoista a farci rallentare, ma la generosità e la curiosità e l’appetito.
E così ricordiamo, scriviamo libri, leggiamo. Leggere, come ricordare, può riaccendere la vita dentro di noi, ma Proust spiega perché non si dovrebbe affrontare la lettura come una disciplina: «Si finirebbe per dare troppa importanza a ciò che è solo un’iniziazione facendone una disciplina. La lettura sta sulla soglia della vita spirituale; può introdurci in essa: ma non la costituisce». (Traduzione di Alessandra Castellazzi)

il manifesto, 16/7/2022,

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