È italiana la nuova Relatrice Speciale delle Nazioni Unite sulla situazione diritti umani dal territorio palestinese occupato da Israele dal 1967. Si chiama Francesca Albanese ed è la prima donna a ricevere questo incarico dall’Onu. Giurista specializzata in diritti umani e questioni dei rifugiati, Albanese ha lavorato come legale con varie agenzie delle Nazioni Unite come l’Unrwa e Ohchr. E’ del 2020 il suo libro Palestinian Refugees in International Law. Michele Giorgio l’ha intervistata per, il manifesto, sul mandato di Relatrice che svolgerà a partire dal mese prossimo e le sfide che la attendono.
Il suo è un incarico prestigioso, tra i suoi predecessori ci personalità come Richard Falk e Michael Lynk. Ma è anche è delicato dal punto di vista politico.
Senza dubbio. Il Relatore speciale delle Nazioni unite è un esperto indipendente a cui è dato mandato dal Consiglio per i Diritti Umani, con sede a Ginevra, di investigare e informare l’Onu e il pubblico di questioni specifiche sui diritti umani. Alcuni mandati sono tematici, altri geografici. Il mio è geografico. La delicatezza di questo incarico sta nella specificità del territorio che è in considerazione, quello che Israele ha occupato nel 1967. Il mio lavoro consisterà nel condurre inchieste e monitorare il rispetto dei diritti umani nei territori palestinesi e poi fare rapporto alle Nazioni unite. Oltre a ciò, c’è una gamma di azioni che si collegano a questo compito fondamentale, che riguardano l’informazione e l’analisi critica di ciò che avviene. Come è noto, è un mandato che ha ricevuto spesso attacchi e critiche violente.
Quali sono le maggiori criticità quando ci riferiamo ai diritti dei palestinesi sotto occupazione israeliana?
C’è la questione della violazione dei diritti umani per mano dell’esercito israeliano e anche dei coloni israeliani che risiedono illegalmente nel territorio e che commettono violenze che sono state ampiamente documentate da Ong israeliane, palestinesi, da chi mi ha preceduto nel ruolo di Relatore speciale e altri organi delle Nazioni unite. Ci sono poi violazioni come trasferimenti forzati di popolazione, arresti e uccisioni arbitrarie, torture, l’accesso (negato, ndr) all’istruzione e alla giustizia. La lista è lunga. È importante soffermarsi sul contesto nel quale avviene ciò che ho appena menzionato: una occupazione militare che dura da 55 anni.
Il suo incarico sarà parallelo al lavoro di indagine che svolgono nei Territori occupati organizzazioni come Amnesty e Human Rights Watch e anche l’ong israeliana per i diritti umani B’Tselem.
Sì, un numero crescente di Ong ed organismi internazionali mettono in luce che Israele sta attuando nei confronti dei palestinesi un sistema di Apartheid. Si tratta di un’accusa molto pesante. L’Apartheid costituisce un crimine che è di competenza anche della Corte penale internazionale. Occorre comprendere che 55 anni di occupazione militare sono un tempo molto lungo che, come ha sottolineato il mio predecessore Michael Link, ha sforato il limite della legalità. Un’occupazione deve essere temporanea, solo per ragioni di sicurezza militari e va smantellata. E comunque va condotta tenendo conto dei bisogni dei civili sotto occupazione. Tutto questo non è avvenuto negli ultimi 55 anni nei Territori palestinesi. L’occupazione militare israeliana è diventata un veicolo per la colonizzazione, ossia è volta a prendere quanto più territorio è possibile con la costruzione degli insediamenti, attraverso l’espropriazione di terre dichiarandole aree militari, il rendere impossibile la vita civile palestinese in questi territori e anche lo sfollamento di popolazione.
Israele respinge le accuse e afferma di dover lottare costantemente contro il terrorismo. Il problema, sostiene, non è l’occupazione militare ma la minaccia terroristica portata dai palestinesi.
Il diritto alla sicurezza di ogni Stato è sacrosanto ed è riconosciuto come un corollario della sovranità. In astratto comprendo le ragioni di Israele ma nella pratica l’argomento è stato usato ed abusato. Perché stiamo parlando di un paese che ha uno dei sistemi di sicurezza più sofisticati al mondo, che ha gli strumenti per difendere il proprio territorio senza dover occuparne un altro. L’ordine internazionale si basa sul rispetto di regole chiare, ben definite. Occupare un altro paese, un altro popolo reclamando un diritto all’autodifesa mi sembra una strumentalizzazione. Peraltro, dagli Accordi di Oslo (1993) a oggi, negli ultimi trent’anni, avrebbe dovuto esserci un dialogo per la pace basato sul riconoscimento (da parte di Israele, ndr) del principio Due Popoli, Due Stati. Questo non è successo. Dal mio punto di vista la motivazione di Israele per il perdurare dell’occupazione militare non ha fondamento fattuale e legale.
Andrà nei Territori palestinesi occupati, l’area del suo mandato? Le autorità israeliane la lasceranno passare?
Spero di sì, perché è mia intenzione andarci. Conto perciò sulla cooperazione e il buon senso di tutte le parti in questione, governative e non, e di chi ha il controllo del territorio.
il manifesto, 14/4/2022