Qui di seguito un percorso di Alessandra Pigliaru fatto di saggi e narrazioni sul desiderio e il piacere femminile. Da Tamara Tenenbaum a Catherine Malabou, da María-Milagros Rivera Garretas a Barbara Verzini. La pandemia ha reso evidente la rimozione dei corpi e ha rimpicciolito gli spazi delle relazioni, sessuali ed erotiche. È però questo un processo che ha radici lontane. Apparso su il manifesto del 17 febbraio.
«Quello che penso sia successo con la pandemia è che ha accentuato cose che stavano già accadendo, cioè che siamo così sovrasfruttati tutto il tempo che è difficile per noi connetterci con il desiderio». A riferirlo è Tamara Tenenbaum in una conversazione con Pablo Herón per «La Izquierda Diario» (e riportata da «La voce delle lotte»). Dalla intervista sono trascorsi circa due anni e, con probabilità, adesso abbiamo più elementi per comprendere lo smarrimento di cui accenna Tenenbaum, scrittrice con una formazione filosofica nata e cresciuta in una comunità ebraica ortodossa nel quartiere di Once, a Buenos Aires, che nel 2019 ha dato alle stampe El fin del amor. Querer y coger en el siglo XXI. Per Fandango, esce ora la versione italiana La fine dell’amore. Amare e scopare nel XXI secolo (pp. 224, euro 20, traduzione di Alberto Bile Spadaccini), un testo che consente di orientarsi nell’arcipelago complesso delle relazioni partendo da una esperienza di trasformazione personale che sposta una ragazza a riflettere sulla propria libertà, sulla propria autonomia simbolica, sul proprio disidentificarsi con ciò che è il dettato all’apparenza obbligatorio della coppia.
Lasciata la propria comunità, Tenenbaum fa interloquire la propria storia per ricontrattarne i contorni. L’amore da congedare è quello romantico. Più avanti, sottolineando il tenore di questa decostruzione a partire da sé, specifica che il desiderio ha un carattere paradossale, «lo percepiamo come una cosa che ci succede, un accidente che ci capita, eppure dobbiamo assumerne la responsabilità». Non solo del nostro, ma anche di quello altrui. Ed è qui che consiste l’opposizione tra la libertà e il consumo neoliberista. Lo dice a partire da sé, dal proprio essere donna. Potremmo aggiungere che la scoperta di una tale generatività priva di imperativi sia l’ingresso diretto al piacere.
Non c’è bisogno di dire quanto la stretta pandemica sia stata nociva al desiderio, in primis quello sessuale. Questa distanza di sicurezza arriva però da lontano, si è radicata negli anni e oggi la ritirata del desiderio, sacrificato sull’altare di una deriva politica a tratti reazionaria e depressiva, non è, ancora una volta, un’astrazione. Diventa piuttosto qualcosa che si inchioda ai corpi. Leggere Il piacere rimosso. Clitoride e pensiero, di Catherine Malabou (Mimesis, pp. 157, euro 14, traduzione di Linda Valle, prefazione di Jennifer Guerra – il 6 marzo se ne discuterà a Milano nell’ambito di BookPride alle 14.30) precisa al mondo una geografia incarnata. A partire dalla domanda sul soggetto del femminismo, Malabou – filosofa, psicoanalista e docente alla Kingston University – fa un’operazione piuttosto azzardata e dunque preziosa di questi tempi: intanto riparla apertamente di clitoride, al centro di molte riflessioni – inaggirabili quelle di Carla Lonzi che nel 1971 scrive Donna clitoride a donna vaginale pubblicandolo in un volumetto edito da Rivolta Femminile con Sputiamo su Hegel). Dà alla clitoride uno statuto politico, tornando dunque a un posizionamento che, radicandosi almeno storicamente nel pensiero della differenza sessuale, osserva e interroga genealogie critiche e altre soggettività.
Oltre Lonzi, cui dedica un capitolo, la ricognizione passa infatti al setaccio Simone de Beauvoir, Luce Irigaray ma anche l’immaginario ninfale e naturalmente quello maschile che in questi decenni di nascondimenti ha creduto di poter disporre dell’orgasmo femminile. Ricordando che non esistono «corpi intatti» né indenni da «artefatti farmacologici», Malabou dialoga inoltre con l’esperienza di Paul B. Preciado e degli approcci queer, intersessuali, trans; la clitoride, spiega «è diventata il nome di un dispositivo libidinale che non appartiene necessariamente alle donne e sovverte la visione tradizionale della sessualità, del piacere e dei generi. Altre chirurgie, altri immaginari».
Più che domandarsi di quale rimozione si stia vagheggiando nel titolo, sarà il caso di chiedersi quante siano. Malabou ripercorre la violenza che ha attraversato i corpi delle donne, per occultare, eliminare, e poi ancora opprimere a diverse latitudini. Nel 2012 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha dichiarato il 6 febbraio «Giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili (mgf)» e se la clitoridectomia è stata anzitutto simbolica, per impiantare al suo posto il fallomorfismo che ben conosciamo, è pratica utilizzata, come lo sono l’escissione e l’infibulazione. Si parla di una ragazza o una donna escissa ogni quindici secondi.
La clitoride però è un’anarchica, conclude Catherine Malabou. E lo è perché con l’anarchia condivide l’ingovernabilità, la clandestinità e il grado massimo di rifiuto del potere. È sulla base di questa rivoluzione di prospettiva che produce pensiero, che può essere crocevia di molteplicità come di desideri plurali. Del resto, dopo le agonistiche e spesso arroganti elucubrazioni falliche, c’è una ragione sufficiente per cui non si possa rendere alla clitoride (e dunque al piacere), questa piccola e smisurata altura incastonata di meraviglie, tutta la centralità sovrana che le è propria? Ne avremmo tutti e tutte nutrimento oltre che godimento.
Certo il problema permane quando si cerca il contatto con altri corpi ma anche per questo María-Milagros Rivera Garretas ha scritto Il piacere femminile è clitorideo (uscito a Madrid e ora, grazie alla traduzione di Barbara Verzini, disponibile anche in Italia; edizione indipendente, è il quarto titolo della collana «A mano», pp. 208, euro 17, verrà discusso alla Libreria delle donne di Milano il 26 febbraio, alle 18). Storica medioevale che ha insegnato all’Università di Barcellona e che, nella stessa città, ha fondato con altre Duoda (Barcellona) e ora Dhuoda (Cáceres), Rivera Garretas fa ordine su una serie di malintesi che cominciano proprio dalle parole. È per esempio il caso emblematico di «ermeneutica» che, se ha prodotto molta della violenza che conosciamo (dall’impianto accademico alla costrizione del metodo cartesiano), contiene le «erme», una pratica e un’usanza femminile ancestrale delle donne aymare boliviane che, quando viaggiavano, ponevano una piccola pietra sopra dei mucchietti ai punti di incrocio tra valle e montagna per chiedere protezione divina. Il cumulo di sassolini della Dea Era (e non di Hermes) è una collina, ovvero la clitoride.
Questo cambio prospettico, uno dei tanti esempi che propone l’autrice, è la traiettoria di ritorno all’origine, così come lo sono le poesie di Emily Dickinson o le voci di Juana Inés de la Cruz o ancora di quel legame che dal piacere passa al godimento, al toccare e ritoccare delle labbra di cui ha scritto Luce Irigaray nel suo Questo sesso che non è un sesso (1977) e che ancora ha molto da raccontare. Bisogna approfittare, secondo Rivera Garretas, dei misteri clitoridei che sono tali poiché «la nostra cultura trova difficile capire e impossibile ammettere che i concetti vengono concepiti nel piacere, non nello studio né nello sforzo angoscioso della ragione». Ecco spiegata l’immagine secondo cui «la donna clitoridea concepisce corpi senza coito e concetti senza fallo».
Non è una suggestione, è il senso libero di una esplorazione di cui rende conto Barbara Verzini nel suo La Madre nel Mare. L’enigma di Tiamat (volume prezioso e frutto di edizione indipendente, che inaugura la collana «A mano» (pp. 110, euro 16). È un testo speciale, sofisticato nell’esegesi, poetico di scavo per le connessioni teoriche, simboliche e artistiche individuate e in cui si studia e si legge, con sguardo innamorato, il poema accadico Enuma Elish (sette tavole di 150 versi ognuna) e la babilonese Tiamat, signora del Chaos. «Affrontare la dismisura femminile», avverte Verzini, filosofa indipendente e docente a Barcellona al Master di Duoda e anche lei, con altre fondatrici di Dhuoda, «è un problema del patriarcato e delle donne patriarcali». Dalle profondità oceaniche di Tiamat, origine e totalità, arriva allora lo scintillio trasformativo che – al posto del rimpicciolimento di cui in tante hanno fatto e fanno esperienza, chiudendo il piacere clitorideo in un cassetto – propone di spalancare la visione: «Sia benvenuto un mondo di abbondanza di rane e di bocche dalle carnose labbra, un mondo che brinda alla differenza e alla grandezza femminile, dove nessuna sia mai più costretta a farsi piccola mentre si sente chiamare pazza, ma possa gridare indomita la propria eccedenza».
Da questa festa politica di libri, non sembra che il desiderio sia poi così sdrucito, si tratta solo di tenerlo insieme al piacere dei corpi. Che sentono e vivono tutto, con amore passione e talvolta stordimento. Come un abbraccio irrinunciabile.
Alessandra Pigliaru, il manifesto, 17/2/2022