Addio allo scrittore e saggista di origini vicentine, morto all’età di 61 anni. Dal romanzo al racconto, dal teatro alla sceneggiatura, una voce che ha indagato i dettagli del proprio tempo. La scrittura in prima persona è chiamata a rendere ragione di se stessa, e dunque del pensiero, del viluppo di connessioni e flussi mentali degli umani. La postura letteraria, etica e politica, è tale in quanto radicalmente esistenziale, rende analizzabile il caos del paesaggio, la frantumazione della vita, la crudeltà del mondo. Del suicidio di Vitaliano Trevisan molti sono i complici, responsabili o inconsapevoli, comunque complici.
Un articolo di Luca Illetterati, apparso su il manifesto del 9/1/2022, traccia un profilo dell’artista e intellettuale, persona tormentata e irrequieta.
Il pericoloso sogno dell’autenticità
La voce di Vitaliano Trevisan – trovato morto in solitudine venerdì 7 gennaio nella casa che abitava da qualche anno nell’alta Valle del Chiampo, in provincia di Vicenza – era insieme nitida e contorta, capace di dire il tragico dell’esistenza con la precisione di un cesellatore, che non trascura nemmeno il minimo dettaglio nel tentativo di corrispondere alla durezza e alle asperità del reale. Persino beckettianamente divertita dall’insensatezza del mondo e della vita, quella voce era tesa, tagliente, insieme cupa e ironica, visceralmente ossessionata dalla necessità di essere vera, di smascherare, attraverso un rigore insieme sintattico ed etico, le menzogne ideologiche, i trucchetti che tutti noi mettiamo in atto al fine di renderci sopportabile il mondo.
Proprio perché la sua scrittura è tutt’una con il bisogno che la produce, Trevisan è forse l’autore italiano che più ha saputo essere all’altezza del proprio tempo, leggendo, nelle contorsioni esistenziali degli umani e nella materialità concreta del reale, le linee più profonde e interrate della contemporaneità. Sebbene la parola autenticità sia a volte orribilmente vischiosa, sempre ambigua e dunque giocoforza complicata, rende conto meglio di altre della lama pericolosa e tagliente sopra la quale da sempre camminava Trevisan.
La scrittura era per lui l’unico luogo nel quale, forse, aveva senso perseguire il sogno folle, assurdo e intimamente pericoloso dell’autenticità. Non c’entrano, o c’entrano solo in parte, categorie come quelle dell’autofiction o della non-fiction, che pure Trevisan ha percorso prima, meglio e più radicalmente di altri. C’entra invece un’idea di verità della scrittura che è tale indipendentemente dalla corrispondenza fra il testo e una realtà ad esso esterna, e che consiste nel suo essere adeguata a se stessa, nello sforzo titanico e doloroso – a volte davvero terribilmente doloroso – di non usare mai le parole, la grammatica e la sintassi come maschera, come decoro, come accomodamento. Il che non corrisponde affatto a una rinuncia allo stile, al lavoro sulla parola: semmai, al contrario, ribadisce la convinzione che la verità sia solo nello stile; che solo una scrittura consapevole delle sue strutture e dunque del suo farsi e del suo prodursi sia in grado di dire come stiano le cose.
Non a caso, leggere Trevisan significa sempre ascoltare una voce. Tutti i suoi testi – siano essi di pseudofiction (da Trio senza pianoforte, del 1998, a I quindicimila passi, del 2002, a Un mondo meraviglioso del 2003, a Un ponte del 2008 o agli strepitosi racconti di Standards, Shorts, Wordstar(s), Grotteschi e arabeschi), testi teatrali (da Il lavoro rende liberi del 2005 a Una notte in Tunisia del 2011 fino a Il delirio del particolare del 2020 e attualmente in scena), avessero la forma del memoir (come nell’immenso Works, del 2016) o quella della fiction saggistica (come nel formidabile e non sempre adeguatamente valorizzato Tristissimi giardini, del 2010) – sono infatti scritture che parlano, che hanno una peculiare cadenza fonetica, sonora, che non sono leggibili fuori dal timbro e dal ritmo che le costituisce. E la voce che parla ossessivamente cerca di farsi strada dentro il magma mentale che ne è all’origine. L’io narrante si fa carico del compito di dipanare il caos della mente e del mondo, attraverso quel rigore ossessivo, che è insieme della cosa e della sintassi che la esprime.
L’uso della prima persona, che caratterizza buona parte della produzione di Trevisan e che egli ha sempre detto di avere imparato dall’amato Thomas Bernhard, è funzionale a questa disposizione. Ma è una prima persona che non rimanda ad alcuna dimensione di ingenuità, che non è mai, cioè, in alcun modo una strizzatina d’occhio a una qualche estetica della spontaneità.Iperlavorata e iperpensata, lontanissima da ogni ideologia dell’immediatezza, della naturalità e della schiettezza, la scrittura in prima persona di Trevisan è chiamata a rendere continuamente ragione di se stessa, e dunque del pensiero, del viluppo di connessioni e percorsi dentro il quale si incuneano i flussi mentali degli umani, i loro modi di agire, le spesso bislacche geometrie che innervano lo spazio materiale nel quale si svolgono le loro esistenze. E tutto ciò è in Trevisan una forma di assunzione di responsabilità nella quale si trovano coinvolti tanto l’autore quanto chi lo legge.
La scrittura di Vitaliano Trevisan è fatta di una meccanica fine, di precisione, dove l’attenzione minuziosa a tutti i passi dell’azione descritta è sempre finalizzata alla restituzione della verità di uno sguardo che quanto più è situato, quanto più è esplicitato come punto di vista particolare ed esistenzialmente connotato, tanto più si trova all’altezza della verità della cosa, della verità dell’esperienza che l’esistenza fa della cosa.
Lo scrittore non può permettersi ambiguità semantiche, ammiccamenti lirici; non può concedersi giochi di prestigio linguistici e sintattici, non può indugiare su effetti speciali che non siano connessi alla necessità della descrizione. Un atteggiamento diverso, che non si attenesse in modo controllato e consapevole al rigore descrittivo, anche quando ciò che ad essere descritto è il delirio stesso – di un soggetto, di un paesaggio, della famiglia, delle relazioni sentimentali, del mondo del cinema, del mondo del lavoro, dell’industria culturale – sarebbe giocoforza inganno, mera costruzione, una cesura nel rapporto tra scrittura e verità.
Per questo Trevisan non sopportava il superfluo. Il suo periodare, a volte apparentemente e persino volutamente involuto (perché involuto è il modo in cui noi parliamo a noi stessi) è sempre terribilmente preciso, come se il lavoro della scrittura – che è per Trevisan sempre lavoro manuale – avesse il compito non certo di mettere ordine nella vita, quanto piuttosto di renderne, in modo rigorosamente ordinato, l’intrinseco disordine. In questo senso, quella di Trevisan – uomo strutturalmente impolitico e refrattario a qualsiasi moralismo – è una scrittura etica e politica nel senso più intimo e radicale del termine. Non tanto per i temi che tratta quanto per la postura che incarna: una postura esente da compromessi, che non prende scorciatoie, e si assume fino in fondo la responsabilità di dire ciò che ha da dire nel modo insieme più rigoroso, preciso e concreto possibile. Una scrittura etica e politica che è tale in quanto radicalmente esistenziale, in quanto investita del ruolo di rendere se non sopportabile, perlomeno controllabile e analizzabile il caos del paesaggio, la frantumazione della vita, la crudeltà del mondo.
Chiunque abbia letto anche solo qualcosa di Vitaliano Trevisan sa quanto conoscesse il dolore e la fatica. E forse ciò che egli chiedeva alla scrittura era non una qualche forma di sublimazione terapeutica, ma piuttosto la possibilità di dare forma a quel dolore e a quella fatica, come se la scrittura fosse l’unica strategia per provare a comprendere le traiettorie insensate del dolore e i percorsi assurdi del lavoro di esistere dentro l’annichilimento stesso del senso.
Luca Illetterati, il manifesto, 9/1/2022