Mentre la tregua tiene, Israele cambia governo e si rafforza l’egemonia di Hamas, cresce un nuovo punto di vista presente tra le nuove generazioni, fuori e dentro Israele, fuori e dentro la Palestina. Perché non costruire un solo stato con due popoli?
Ne scrive Vera Pegna, in un articolo apparso su il manifesto del 3 giugno 2021.
Attualmente circolano due proposte di soluzione alla cosiddetta questione israelo-palestinese. La prima, quella dei due popoli due Stati sostenuta dall’intera diplomazia internazionale, attribuisce ai palestinesi non uno Stato sovrano bensì un territorio di circa il 20% della Palestina, collegato a Gaza con un tunnel e inframmezzato dagli insediamenti di 700.000 coloni israeliani comunicanti tra loro con dei cavalcavia di proprietà israeliana; per giunta, questo non-Stato sarebbe totalmente dipendente da Israele per la fornitura di energia elettrica, telefonia mobile, aeroporto e altri servizi essenziali; né avrebbe come capitale Gerusalemme est, bensì un sobborgo di questa chiamato Abu Dis. Avete capito, palestinesi? È prendere o lasciare.
Della seconda proposta, quella di un unico Stato per i due popoli, la diplomazia internazionale non parla, né tantomeno ne parlano i media. È radicalmente diversa dalla prima, in quanto parte dalla constatazione della realtà sul terreno, ovvero dal fatto che nel territorio della Palestina storica esiste un solo Stato, Israele – senza confini stabiliti – con a fianco e senza soluzione di continuità la Cisgiordania, cui si aggiunge Gaza; l’intero territorio è governato da un’unica autorità, il governo israeliano che, a suo piacimento, ne annette pezzi, erge muri e impone regimi politici diversi alle popolazioni ivi residenti: pieni diritti di cittadinanza agli ebrei, diritti minori ai palestinesi d’Israele (chiamati arabi d’Israele, cristiani, drusi, beduini sì da confondere la loro comune identità nazionale), apartheid per i palestinesi della Cisgiordania e ghettizzazione di Gaza.
La differenza fra le due proposte salta agli occhi: quella dei due popoli due Stati garantisce a Israele, in cambio della sua funzione di difesa degli interessi occidentali nel Medio Oriente, il compimento del progetto sionista di uno stato ebraico in Palestina, con il minore numero possibile di palestinesi (si fa di tutto per farli uscire di scena ma loro non mollano); con ogni evidenza è una proposta che parte, non dall’intento di trovare una soluzione duratura di convivenza pacifica fra i due popoli, bensì da una visione verticistica e eurocentrica della difesa degli equilibri geopolitici della regione.
La seconda proposta, quella di uno Stato due popoli, è tabù in quanto volta unicamente a una prospettiva pacificatrice; ma anche in quanto si pone in controtendenza rispetto alla visione geostrategica delle grandi potenze e dei loro alleati: quella di un’Israele forte ed egemone in un Medio Oriente di ex stati sovrani, anomici e in disgregazione (Afghanistan, Iraq, Siria, Yemen, Libia).
Non sopravaluto il crescente, anche se ancora limitato, gradimento che tale proposta suscita nei popoli interessati. Ai palestinesi è sempre più chiaro che è preferibile battersi per i propri diritti all’interno di un unico Stato invece che accettare la resa incondizionata a Israele insita nella soluzione due popoli due stati. Fra gli israeliani la situazione è più complessa. Oltre il venti percento della popolazione è composta da palestinesi, oltre il cinquanta percento è di provenienza araba e sefardita (fra cui i miei avi) e solo il venti percento è di origine europea; però è quest’ultimo gruppo che costituisce l’establishment e, con l’arroganza tipica dei colonialisti europei verso i popoli oppressi, ha sempre disprezzato tutto ciò che è arabo e sostenuto l’equazione fra palestinese e terrorista; come pure i media israeliani, la cui libertà è valutata all’ottantaseiesimo posto dal World Press Freedom Index. Tuttavia, se è vero che l’idea di convivere con i palestinesi non è gradita alla grande maggioranza della popolazione, è anche vero che si moltiplicano le imprese comuni e i matrimoni misti e che nascono gruppi di cittadini che militano a favore dello stato comune ai due popoli.
Non sottovaluto le obiezioni, gli ostacoli, i ricatti e magari anche il peggio di cui sono capaci i potenti alla sola idea di perdere le loro posizioni di forza, ma nulla inficia la possibilità di prendere atto della realtà e dichiarare l’esistenza di uno Stato comune a entrambi i popoli; non domani, s’intende, ma in prospettiva, perché appunto di prospettiva si tratta, cioè di un processo politico lento, volto a svelenire il clima di odio diffuso e porre le basi di una convivenza pacifica. Non un sogno, ma un futuro possibile: a patto che lo si voglia.
il manifesto, 3/6/2021