Intervista di Alessandra Vanzi, apparsa su il manifesto, il 24/04/2021.
Incontro il professor Mauro Palma, Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà, che di recente ha tenuto una conferenza all’Accademia dei Lincei. È un uomo sempre in movimento e mi racconta che tornando da Firenze si è trovato bloccato per 3 ore sull’autostrada dai ristoratori e albergatori in protesta contro le chiusure: «Mi è venuta in mente una persona di cui mi sono occupato che è stata condannata a 2 anni di carcere per aver megafonato agli automobilisti, invitandoli a non pagare al casello autostradale in Val di Susa, un’azione che è durata 20 minuti…».
Gli chiedo di fare il punto sulla situazione carceraria in quest’anno di pandemia ripartendo, se possibile, dalle violente rivolte dell’anno scorso: «Purtroppo la nostra società ha archiviato quei 13 morti come se fossero un danno collaterale, senza riflettere sul fatto che l’esplosione della rivolta è stata provocata dalla comunicazione errata che si sarebbe chiuso tutto. In realtà il provvedimento sospendeva solo per 15 giorni i colloqui».
Ci sono state delle indagini?
La magistratura in alcuni casi è andata avanti e ha chiesto l’archiviazione di otto casi e il Garante Nazionale si è opposto perché ha sollevato in almeno cinque casi dei rilievi di maggior indagine da portare avanti.
Adesso qual è la situazione?
Per fortuna la serenità è stata riportata con la diffusione, da parte dell’amministrazione stessa, di smartphone per parlare con i propri cari e anche vedere gli ambienti esterni, e questo è importante perché stabilisce il fatto che quel mondo è in fondo lo stesso che c’è fuori. Io spero bene che a nessuno venga in mente di togliere questo accesso una volta finita l’emergenza.
L’altro elemento problematico è il fatto, che per diminuire i contagi, molte meno figure sono entrate in carcere e anche la stessa didattica a distanza ha funzionato molto poco. Un carcere svuotato dalla connessione con il tessuto sociale esterno ci riporterebbe indietro di tantissimi anni.
Quali sono le maggiori criticità del sistema detentivo attuale?
Non v’è dubbio che il sistema dell’esecuzione delle pene nel nostro paese presenti delle criticità endemiche e delle criticità specifiche, dovute al particolare momento che si sta vivendo.
Parto da quelle strutturali endemiche e dal fatto che la Costituzione all’articolo 27 parla di pene al plurale e quindi nel Costituente c’era l’idea che il carcere fosse una delle pene possibili ma che ci fosse un insieme di sanzioni penali da prevedere.
Noi, invece, in realtà, abbiamo un sistema che è centrato soltanto sulla pena detentiva, alla quale, semmai, sono state poi messe nell’ultima parte dell’esecuzione penale delle misure alternative, ma non ci sono delle pene alternative al carcere.
Questa è una prima questione strutturale che lascia spazio ad una piegatura del sistema detentivo, dove vanno a finire tutte le complessità sociali: da quelle che nascono da episodi di effettiva gravità, che magari richiedono realmente un periodo di pena privativa della libertà, a quelle che invece dovrebbero trovare risposte di altro genere, fino a quelle che sono in realtà il prodotto dell’assenza di una politica sociale nel territorio che eviti di arrivare alla commissione del reato.
Mi riferisco in particolare a un migliaio di persone attualmente detenute che scontano una pena, non un residuo di pena, inferiore ad un anno, molte delle quali sono senza fissa dimora. Allora ti domandi che tipo di pena può essere quella se non un’interruzione di vita destinata poi a riprodursi più volte?
E così arriviamo alla seconda questione strutturale che è il fatto che la finalità rieducativa, che pure la Costituzione afferma, diventa solo un simbolo, un feticcio, perché non c’è nessun percorso riabilitativo per pene così brevi che possa essere messo in campo.
Così si va perdendo una connotazione che la sanzione penale dovrebbe avere, che è quella che la risposta al reato non può essere solo inibente, ma deve essere anche progettuale, cioè un modo per poter riannodare e ritornare.
La terza questione strutturale, che io definisco endemica, sta nel fatto che l’opinione pubblica e la rappresentazione pubblica del carcere è completamente sbilanciata sulle questioni della grande criminalità organizzata; questione vera, rilevante, ma che non riassume in sé la reale complessità della situazione carceraria.
Se io penso ai numeri di 41 bis, alta sicurezza e criminalità organizzata, arrivo più o meno a un totale di 10.000 su un totale di 53.000 persone in carcere. Eppure l’occhio del dibattito pubblico, del consenso e dissenso rispetto alle proposte legislative è concentrato solo su quello. Come se non fosse più conveniente per la società ragionare sul domani e il dopo, e invece ci si concentra sull’oggi e il dentro.
Queste caratteristiche per me sono anche più rilevanti rispetto a quelle, pur gravi, che riguardano la materialità delle condizioni, temi veri, ma in risposta ai quali ci possono essere delle soluzioni di ripianificazione, ma se non si affronta l’altro nodo avremo sempre un problema di sovraffollamento.
In questa complessità si è inserita la pandemia.
In luoghi già di per sé chiusi, tendenti ad avere condizioni che non permettono quelle misure di igiene e distanziamento che il contagio richiederebbe s’è aggiunta una nuova ansia, che abbiamo anche noi, quella di essere vittima di qualcosa che non vediamo e di cui possiamo essere noi stessi portatori.
Quindi è bene che nel carcere sia vaccinato l’insieme degli attori presenti: chi ci lavora e chi vi è ospitato perché, come tutti i luoghi chiusi, è un potenziale luogo di espansione non controllata del virus; poi c’è una vulnerabilità specifica che dipende proprio dalla composizione delle persone detenute molto spesso provenienti dalla marginalità di strada, da percorsi di abuso di sostanze e di difficoltà di vita, anche giovani che arrivano già con delle fragilità a cui bisogna stare attenti.
Non dimentichiamo che la tutela della salute è uno dei diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione, anzi è l’unico caso in cui viene usata la parola fondamentale. Quando poi parliamo del settore delle pene più lunghe e della grande criminalità, dobbiamo tenere presente l’età avanzata di queste persone.
Quali sono i numeri attuali dei contagi?
Oggi, 21 aprile, abbiamo 656 detenuti positivi distribuiti in 51 dei 190 istituti esistenti, di cui 32 sintomatici (21 in ospedale e 11 negli istituti). Nelle unità di personale ci sono 510 positivi ma tutti asintomatici.
Come si è pronunciata la Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo?
La Corte Costituzionale ha stabilito un principio estremamente importante come punto di arrivo di una discussione che più volte si è sviluppata nelle Corti Nazionali e in sede Internazionale.
La Corte Costituzionale ha stabilito che considerare soltanto l’elemento della possibile collaborazione come elemento dirimente per la liberazione condizionale non è in linea con ciò che la Costituzione prevede. E stiamo parlando proprio di uno strumento: la liberazione condizionale, che nel caso dell’ergastolo il nostro codice prevede dopo 26 anni.
È uno strumento che esiste in tutti gli ordinamenti. Non è un beneficio, ma è un meccanismo che permette di riconsiderare dopo un numero lunghissimo di anni, quando una persona poi non è più la stessa di quando ha commesso il reato, il percorso che ha fatto.
Detto questo, la Corte però ha dato un anno di tempo al Parlamento per legiferare. Lo ha fatto perché dice che altrimenti si smantellerebbe adesso un impianto con un paese probabilmente non pronto a tale smantellamento.
E qui arriva la mia perplessità. Perché questo diventa il prevalere della ragione politica sulla ragione giuridica. Vedremo come il Parlamento opererà in quest’anno, cui positivamente la Corte ha dato una scadenza. Ho dubbi che il dibattito parlamentare possa essere troppo condizionato da opinioni contrastanti sul piano mediatico di chi non si rende neanche conto di qual è la dimensione della misura.
Lo scorso anno, tanto per dare una dimensione reale, le liberazioni condizionali in totale sono state 10, un anno prima erano state nove. Stiamo parlando di numeri veramente piccoli.
Alias, il manifesto, 24/4/2021