Lo storico Claudio Vercelli ha scritto questa ampia e interessante riflessione su il manifesto del 24 aprile 2021. Con spietata lucidità ci avverte che oggi il neofascismo si alimenta dei “…poteri pubblici deboli, amministrazioni distanti se non ostili, collettività sfrangiate, subalternità della politica all’ipertrofia dei processi economici globalizzanti”. E che tutto ciò produce un “ambiente tossico, dove l’irrazionalismo si incontra con l’esasperazione, la mancanza stessa di risorse si traduce non in richiesta di diritti bensì di risarcimenti, mentre la condizione subalterna non formula domande di liberazione ma vagiti vittimistici.” Questo produce una “crisi dell’antifascismo”. Antifascismo che ha bisogno di memoria ma soprattutto di rinnovamento: la ripresa di un’azione collettiva capace di arginare la deriva autoritaria della società italiana.
Il grande rischio del disincanto
Partecipe di una parabola discendente che interessa e coinvolge le istituzioni della repubblica democratica e partecipativa nel suo insieme, l’antifascismo registra l’evidente stanchezza delle sue motivazioni così come i rischi di una sua riduzione a icona del passato. Non è un destino ineluttabile. Tuttavia si fa assai plausibile e prevedibile dal momento che gli ultimi trent’anni di trasformazioni, non solo politiche ma anche culturali e sociali, si sono sommate e riflesse cumulativamente nella transizione che da tempo stiamo vivendo.
C’è una cornice che va considerata, in questo come in altri casi: il passaggio da un sistema di produzione a forte intensità industriale a un circuito nel quale il capitalismo digitale è al contempo soggetto produttivo e istanza di consumo, compendiando in sé l’una e l’altra funzione, decreta l’obsolescenza di quelle forme della politica che identificano nella partecipazione collettiva, consapevole e motivata, una premessa fondante: quella per cui qualsivoglia emancipazione individuale non può passare se non attraverso un agire collettivo informato alla critica dei processi di riproduzione dei poteri.
Il panorama, non solo italiano è oggi sospeso tra lo Scilla dei populismi e dei sovranismi, dove vale la logica del mucchio selvaggio, insieme alla ricerca di un leader che si fa «capo», e il Cariddi del sogno tecnocratico, fondato su un’inesistente neutralità dei percorsi decisionali. L’uno e l’altro atteggiamento sono entrambi figli della stessa matrice, quella che porta collettività in affanno a rifugiarsi in una qualche speranza salvifica basata sulla delega assoluta e non più negoziabile.
Si tratta, per più aspetti, di una dinamica di crescente auto-espropriazione. Le democrazie contemporanee, storicamente, muoiono attraverso una tale traiettoria, quand’essa coniuga sfiducia ad angoscia, ricerca di consolazione a scetticismo sistematico, subordinazione a senso di impotenza. A poco valgono – quindi – i rimandi, in sé tanto fondanti quanto imprescindibili, all’impianto di valori e di esperienza storiche dell’antifascismo medesimo. Il vizio, per così dire, non sta in ciò che viene detto ma in chi non intende ascoltare.
E non a caso, allora, a giudicare dal ripetersi maniacale di diffuse reazioni che recuperano il substrato dei cliché fascistoidi, il calco lasciato dal Ventennio mussoliniano risulta essere non solo pervicace ma anche di nuovo diffuso. Costituisce, infatti, una sorta di elemento underground, che carsicamente riemerge nei momenti della disillusione, del disincanto, della sfiducia rispetto al tempo a venire. Qualcosa, per intendersi, che non può essere liquidato come vestigia del passato, manifestandosi semmai come un fenomeno adattivo del giudizio di senso comune: conformismo, camaleontismo, gregarismo non rimandano a categorie moralistiche, come neanche a un improbabile «fascismo eterno», bensì all’ossatura di un’asfittica ricerca di una via di fuga da un eterno presente, quello del declino, che è altrimenti inteso come l’unico contesto della quotidianità.
Come tale, ciò che resta del fascismo non rimanda al pieno di un passato che non trascorre ma al vuoto di un tempo a venire che da molti è vissuto al pari di un orizzonte senza nessuna meta. Contro il quale varrebbe quindi il recuperare qualcosa che sembra indicare una linea di salvezza, in cui troverebbero soddisfazione quei bisogni di sicurezza, protezione, stabilità e identità che sono invece sentiti come totalmente insoddisfatti.
In questo quadro di riferimento – ben poco confortante, poiché rinvia non solo ai deficit di cognizione di sé e dei propri interessi che caratterizzano ampi settori della nostra società ma anche a una crisi violenta, e apparentemente irreversibile, del politico come sfera decisionale autonoma – ritornano i temi di un autoritarismo salvifico. Si tratta di moneta spicciola, facilmente fruibile nel dibattito quotidiano. Non prefigura peraltro dittature a venire bensì società perennemente fragili e quindi instabili, incapaci di reagire ai percorsi di spossessamento e di perdita di emancipazione che sono da tempo in atto, con la crescita delle diseguaglianze e delle frammentazioni sia nel mercato del lavoro che nel circuito della fruizione dei diritti.
La crisi dell’antifascismo, se di ciò vogliamo parlare non come di uno slogan che si trasforma da subito in un banale tormentone, richiama essenzialmente un tale scenario: poteri pubblici deboli, amministrazioni distanti se non ostili, collettività sfrangiate, subalternità della politica all’ipertrofia dei processi economici globalizzanti. In un ambiente tossico, dove l’irrazionalismo si incontra con l’esasperazione, la mancanza stessa di risorse si traduce non in richiesta di diritti bensì di risarcimenti, mentre la condizione subalterna non formula domande di liberazione ma vagiti vittimistici.
La miscela populistica si alimenta di un tale carburante. Non è quindi in crisi la sola narrazione antifascista come tale ma i fondamentali della coesione sociale, di cui essa medesima è pure stata, fino alla fine degli anni Settanta, un elemento imprescindibile. Al netto delle molteplici opposizioni che registrò sempre e comunque e quindi del suo costituire essenzialmente un patrimonio per minoranze consapevoli. In Italia, il superamento del regime fascista fu realizzato non solo in ragione di una sua incontrovertibile sconfitta storica, consumatasi anche sui campi di battaglia, ma per il successivo tramite dell’introduzione di un sistema istituzionale, politico e solo in parte amministrativo, basato sul costituzionalismo sociale.
La genesi, l’elaborazione e il varo della nostra Carta fondamentale, che fissava rigorosamente la natura antifascista della Repubblica, avvenne grazie al caparbio lavoro di una generazione di oppositori che aveva coltivato la consapevolezza della necessità di una rottura sistematica non solo con il fascismo ma anche con le ombre, le inadempienze e gli anacronismi della precedente società liberale.
Fu un impegno tanto intenso, scaturito dalla materialità della lotta di Liberazione e dalla sua politicizzazione, quanto delegato ad un nucleo di innovatori. Il resto della popolazione ne rimase molto spesso fuori. Non perché esclusa a priori ma in quanto intimamente estranea a quella medesima alfabetizzazione politica che i partiti di massa e gli organismi dell’intermediazione introdussero da subito, ovvero a conflitto armato appena conclusosi.
Si è spesso dibattuto, e a ragione, sui mancati processi nei confronti dei criminali in camicia nera e nei riguardi della violenza fascista nel suo complesso, identificando negli uni e nell’altra alcune delle ossature fondamentali del trascorso regime.
Tuttavia, ben poco ci si è soffermati sul fatto che al nostro Paese, come a tante altre nazioni continentali, dopo una frattura epocale come quella vissuta in quegli anni, occorresse non esclusivamente un processo penale verso i tanti colpevoli ma soprattutto una rielaborazione critica, da parte delle società, nel merito della compartecipazione collettiva a quel sistema di compromissione che stava alla base delle dittature.
L’omissione di un tale sforzo si tradusse pressoché da subito in un percorso di rimozione. Si sa bene come ciò che viene temporaneamente omesso sia poi destinato, in qualche modo, a riemergere. Soprattutto nelle grandi transizioni sociali. La persistenza dell’impronta fascista, quindi della sua pedagogia nera, del suo interclassismo corporativo, della sua ridondante retorica, della sua capacità di accomodamento qualunquista, dell’identità conformistica, della seduzione del vuoto di politica che da essa promanava, costituisce a tutt’oggi un problema irrisolto.
Se l’antifascismo si è adoperato per capovolgere questi paradigmi dell’annichilimento, la sua crisi segnala essenzialmente il reciproco rinforzo tra defezione collettiva dalla politica, declino della partecipazione pubblica, frammentazione delle appartenenze e conclamata deficienza di governo delle classi dirigenti, laddove queste ultime si proclamano indifferenti al destino dei territori.
Il fascismo, in altra epoca storica, fu la risposta a un tale scenario involutivo, ottenendo una piena delega di gestione autoritaria dei processi derivanti dai conflitti sociali e del pluralismo culturale. La storia, va da sé, non si ripete. I quadri delle crisi di sistema, invece, sembrano molto spesso assomigliarsi.
il manifesto 24/4/2021