Una vita e un popolo sotto assedio. Intervista a Sultana Khaya
di Luca Peretti e Cosimo Pica, il manifesto, 9/4/2021
L’attivista simbolo della lotta contro l’occupazione militare marocchina del Sahara Occidentale denuncia una realtà sempre più disumana. «Dopo la violazione del cessate il fuoco vengono represse con la forza tutte le voci a favore dell’autodeterminazione»
In questi giorni si rincorrono notizie preoccupanti dal Sahara Occidentale, il territorio occupato da metà anni ‘70 dal Marocco (che ne rivendica la sovranità), dopo la fine della colonizzazione spagnola. Si tratta dell’ultima decolonizzazione africana. La parte del popolo Saharawi che sotto occupazione marocchina (solo una piccola striscia di terra è autogovernata, mentre la maggioranza vive esule in grandi campi tendopoli nel deserto algerino) è sottoposta dallo scoppio delle ostilità a una situazione ancor più disumana del “normale”.
Il 13 novembre infatti l’armistizio che durava da quasi 30 anni è stato rotto da un’aggressione marocchina e da allora, come il manifesto ha raccontato più volte, prosegue una guerra a bassa intensità ma dai costi umani e politici altissimi. Mercoledì scorso era circolata la notizia – smentita – che il segretario generale del Fronte Polisario Brahim Ghali fosse scampato a un attacco con droni. Nel raid perso però la vita Dah Al Bendir, capo di Stato maggiore della gendarmeria del Fronte.
Abbiamo parlato con Sultana Khaya, attivista saharawi diventata simbolo della lotta del suo popolo, per farci raccontare la vita sotto occupazione. Khaya è presidente dell’organizzazione Lega per la difesa dei diritti umani e contro il saccheggio delle risorse naturali a Boujdour, città del nord del Sahara Occidentale sotto il controllo del Marocco. Nel 2007 ha perso l’occhio destro in seguito a un’aggressione subita dalla polizia all’Università Cadi Ayyad di Marrakech. Nei territori occupati, Sultana è diventata una figura di spicco sempre in prima linea contro l’occupazione: ha organizzato e partecipato a manifestazioni, denunciato, documentato gli abusi delle forze di occupazione soprattutto nei confronti delle donne saharawi. Ma anche a livello internazionale è diventata un simbolo, partecipando anche al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite. Di recente Human Rights Watch e Amnesty International hanno denunciato la situazione in cui vivono lei e la sua famiglia.
Su Zoom con il traduttore e attivista Chaikh Alhala. Sultana ci accoglie con una bandiera Saharawi alle spalle, la stessa che riuscirà poche ore dopo la nostra conversazione a issare miracolosamente sul suo tetto. «Sono tornata a casa della mia famiglia il 19 novembre, dopo un viaggio in Spagna. Mentre ero fuori casa quel giorno le forze di sicurezza marocchine hanno fatto irruzione in casa e hanno colpito violentemente alla testa mia madre di 84 anni, impedendo in seguito che potessimo trasportarla in ospedale a El Aaiun (capitale designata dello stato saharawi, ndr). Da quel momento le forze di sicurezza non hanno più abbandonato la mia abitazione, stazionando stabilmente nei paraggi giorno e notte».
Sei mai uscita di casa in questi mesi?
Sono riuscita a uscire pochissime volte, per percorrere solo pochi metri, prima di essere fermata e minacciata dalle forze di sicurezza marocchine. Nonostante non abbia ricevuto condanne e non sia sottoposta formalmente a regime detentivo, sto vivendo sotto assedio e mi è impedita completamente la libertà di movimento solo perché sono riconosciuta come un’attivista saharawi e provo a rivendicare quotidianamente le nostre aspirazioni di indipendenza.
(Ogni tanto la conversazione si interrompe. Alhala ci spiega che la situazione in casa di Sultana è così invivibile che deve controllare che non ci siano problemi con le forze marocchine fuori dalla finestra).
Anche la tua famiglia è colpita, giusto?
Sì. In oltre 140 giorni di assedio, ogni momento è stato contraddistinto da sofferenze e vessazioni. Subiamo costantemente minacce e tentativi di attacco da parte delle forze di sicurezza marocchine. Anche le mie sorelle sono state più volte attaccate e picchiate. Una di loro, che era incinta ed è venuta da El Aaiun per stare accanto a noi, ha perso il bambino per colpa dello stress che ha dovuto subire.
Cosa è cambiato dopo la violezione del cessate il fuoco del 13 novembre?
La situazione è diventata insostenibile all’interno dei territori occupati del Sahara Occidentale, con le autorità marocchine impegnate a reprimere con la forza qualsiasi voce che si esprima a favore dell’autodeterminazione. Ogni giorno assistiamo a pestaggi, arresti e condanne in seguito a processi palesemente irregolari, caratterizzati da confessioni estorte con pratiche illegali e inumane come la tortura. (Alhala ci dice che i due sono nella stessa città, a Boujdour, ma in case diverse: naturalmente neanche lui può andare a trovare Sultana, che però sta ricevendo solidarietà internazionale e dagli stessi territori saharawi).
La mia situazione ha spinto non solo gli abitanti della zona a manifestare vicinanza e supporto, ma anche molti attivisti saharawi, provenienti da altre città occupate (come Smara, El Aaiun e Dakhla) a venire fin qui per esprimere solidarietà a me e alla mia famiglia. Ogni tentativo di visita è stato prontamente attaccato dalle forze di sicurezza marocchine.
È un anno importante anche in Marocco, dato che ci saranno le elezioni. Quanto peserà la questione saharawi nel dibattito politico-elettorale?
Sicuramente la questione saharawi fa parte del dibattito politico in Marocco ma purtroppo tutte le forze più rappresentative sono contro il movimento indipendentista. Esiste solo un partito di sinistra marocchino, Annahj Addimocrati (La via democratica) vicino alla nostra causa e con cui abbiamo intessuto legami solidali. Si tratta però di un soggetto politico, seppur importante, extraparlamentare che ha sempre boicottato le elezioni negli ultimi anni in netta opposizione al sistema di potere marocchino, il cosiddetto makhzeIn.
In Italia diversi consigli comunali (in particolare in Emilia-Romagna e Toscana) stanno esprimendo solidarietà con il popolo saharawi, mentre l’associazionismo si è attivato nonostante le difficoltà dovute alla pandemia. Cosa si può fare di più?
Ringrazio tutte le persone libere solidali, ovunque nel mondo, che stanno al nostro fianco. In questi giorni sta partendo una campagna di solidarietà internazionale per porre fine all’assedio a cui è sottoposta la mia famiglia. Però ci tengo a specificare che non mi interessa far cessare solo la repressione nei miei confronti. Quello che voglio è la liberazione dei territori occupati e l’autodeterminazione del popolo saharawi.