Le ombre di San Patrignano, un modello di società che non vorremmo mai più vedere
Si è tornato a parlare di tossicodipendenza in seguito ad un docu-film trasmesso da una tv privata in quest’ultimo mese, un programma in cui è stata raccontata l’esperienza di SanPa, abbreviazione in uso per identificare San Patrignano, una comunità di recupero per tossicodipendenti con moltissime ombre e diversi morti sulla coscienza.
Una “città” in cui i diritti sono stati troppo spesso cancellati, in camere e macellerie punitive, persone incatenate o precipitate dalle finestre di un dormitorio. Una “città” in cui se ti innamoravi dovevi separarti dalla persona per molti mesi per dimostrare che si trattasse di amore vero. Una ”città” basata sul lavoro, la persona non aveva modo di elaborare pensieri, emozioni o motivazioni, l’unico modo per “recuperarsi” era il lavoro. Una “città” patriarcale, con un uomo solo al comando che riteneva che le donne fossero più difficili da curare, il loro percorso più lungo e con modalità più controllanti e restrittive. Nessun operatore sociale, nessun psicologo, nessun educatore, nessun infermiere, solo volontari ed un pensiero controllante e punitivo.
Questi sono alcuni dei pilastri che hanno sorretto l’esperienza di SanPA che, come dice Paolo Severi, ex ospite della struttura e curatore del sito “La mappa perduta”, più che un modello di Comunità è un modello di società.
Ad onore del vero è giusto ricordare che San Patrignano non è stata l’unica esperienza di questo tipo. Negli anni ‘80 del secolo scorso erano diverse le comunità, spesso con impostazione cattolica, in cui venivano esercitate fortissime pressioni psicologiche sulle persone e venivano utilizzati dispositivi molto disciplinari e repressivi nei confronti delle persone ospitate.
Contemporaneamente erano presenti invece strutture piccole o private che operavano nel rispetto della persona e della sua libertà. Si tende a considerare San Patrignano come l’unica esperienza esistente e valida ma non è così. Altre esperienze come la Comunità di San Benedetto al Porto di Genova, Saman, Gruppo Abele e molte piccole realtà, alcune delle quali confluiranno poi nel CNCA usavano approcci diversi, nessuna catena, nessuna costrizione.
I servizi pubblici si stavano organizzando, inizialmente in modo poco omogeneo sul territorio nazionale ma stavano nascendo, per arrivare ad una normativa nazionale che ne definisse caratteristiche e compiti, nel 1990, con la legge 45/1990.
La frase ricorrente che purtroppo ancora oggi trova consenso è che il fine giustifichi i mezzi. A ribadire il concetto che la dipendenza sia un vizio, una debolezza e che incatenando le persone quella debolezza passerà, il vizio passerà e la colpa sarà espiata.
La dipendenza è altro, l’OMS la definisce una malattia, e come tale va trattata eliminando qualsiasi forma di stigma, pregiudizio o giudizio morale, che era invece alla base del pensiero di San Patrignano ma che, a giudicare da alcuni commenti e articoli giornalistici usciti nel 2021 è ancora presente e ci deve allertare.
Le persone avevano ed hanno il diritto di essere curate, di accedere ai servizi pubblici e trovarvi qualcuno che si prenda cura del problema e della persona, senza MAI dimenticare che alla base di ciò debba esserci consenso e volontarietà.
La dipendenza da droghe è ora, come ai tempi di San Patrignano, un argomento intriso di stereotipi, dove il pragmatismo ed i diritti lasciano il posto a ideologie e falsi moralismi.
L’assenza di progetti governativi e l’assenza di queste tematiche nei programmi dei partiti, anche durante le competizioni elettorali, è la dimostrazione della mancanza di sensibilità e consapevolezza della politica nei confronti di un problema grave, difficile da affrontare, che coinvolge giovani, persone e famiglie di ogni estrazione sociale e di diversa cultura.
Dieci anni di mancata organizzazione della Conferenza Nazionale delle Droghe, come previsto dalla Legge, l’ultima risale al 2009 è la riprova dello stato delle cose. Da allora non c’è più stato nessuno spazio di confronto tra operatori e ceto politico. A peggiorare la situazione si è aggiunta una normativa, la legge Fini-Giovanardi del 2006, che ha spazzato via l’esito del referendum popolare del 1993 sulla depenalizzazione dell’uso personale di droghe e, ancor più grave, abbiamo dovuto attendere l’intervento della Corte costituzionale per la sua abrogazione nel 2014.
Questi sono stati anni in cui molti consumatori di cannabis hanno subito condanne penali, per pochi grammi di marijuana si potevano aprire i cancelli del carcere. Il nostro è un modello politico ostaggio del proibizionismo che favorisce il controllo del mercato da parte delle mafie e delle organizzazioni criminali: i prezzi si abbassano e si alzano a seconda delle leggi di mercato e chi ha un problema di dipendenza rischia la vita ogni giorno.
In queste condizioni non si è ancora risolto il tema della depenalizzazione e legalizzazione dell’uso di cannabis a fini terapeutici o ludici, se ne discute da anni ma non si è ancora arrivati ad una normativa chiara e questo ci dimostra come l’attenzione non sia rivolta alla cura della persona ma alla “difesa della morale” che considera la sostanza come qualcosa di diabolico.
Certo, le droghe possono essere pericolose e vanno controllate, le persone aiutate, sostenute, accompagnate nei loro percorsi. Ma accompagnare è molto diverso da costringere , incatenare e umiliare psicologicamente, fino ad arrivare in alcuni casi alla morte.
Questo alcuni lo avevano capito già negli anni ‘80 ma chi ha avuto in quel periodo l’appoggio del ceto politico e di importanti finanziatori è stato proprio SanPa, forse perché riproduceva un modello di società condiviso. Ma oggi non possiamo che constatare il suo fallimento, la sua inadeguatezza e il fallimento e l’inadeguatezza della politica!
“Il fine giustifica i mezzi” è accettabile? Alcune famiglie sono portate comprensibilmente ad affermarlo, la disperazione e la fatica di vedere un congiunto in una situazione troppo difficile e con la vita pericolosamente a rischio possono portare a sostenerlo. La reclusione, il TSO (Trattamento sanitario obbligatorio), tutto pur di salvare.
Ma come non sottolineare che negli stessi anni la legge Basaglia ci dava soluzioni diametralmente opposte verso un altro tipo di fragilità, quella delle persone che soffrono per disturbi psichiatrici. Si capovolge l’approccio terapeutico che porta alla chiusura di strutture di puro contenimento per passare ad interventi che coinvolgono il territorio e identificano nuovi modelli operativi.
Forse dobbiamo batterci per capovolgere la prospettiva, riaprire un dibattito culturale e politico di riforme sul tema delle dipendenze, chiedere che vengano implementati i servizi territoriali e residenziali, promuovere un’informazione laica e libera da ideologie.
Le fragilità vanno sostenute e curate, la repressione o il controllo sociale non sono modi che ci appartengono.
Biella, gennaio 2021
Coordinamento Biella Antifascista