Tunisia. Una rivolta in forma di romanzo
Un’anticipazione dall’intervento di Aldo Nicosia al convegno «Tawrat al-karama» che si è svolto a Pisa, . “La letteratura tunisina tra memoria, indagine e ricerca Un’analisi a dieci anni dalla Rivoluzione dei Gelsomini”. Apparso sul il manifesto del 12 gennaio
Quando si affronta la letteratura tunisina del post 2011 non si può prescindere dal peso che due versi di Abu’l-Qasim al-Shabbi (1909-1934), poeta nazionale, hanno avuto nella storia recente del paese: «Se un giorno il popolo vorrà vivere, il destino dovrà assecondarlo/ Le tenebre della notte si dissiperanno e le catene dovranno spezzarsi». Con «I canti della vita», pubblicata postuma, consegna al suo popolo una letteratura «degna dell’eternità». Quei versi, immortalati già dall’inno nazionale, sarebbero stati scanditi durante le manifestazioni contro il regime di Ben Ali ed esportati in tutto il mondo arabo.
Nell’immediatopost 14 gennaio in Tunisia il forte e a lungo represso desiderio di esercitare la libertà di espressione si è manifestato con un’inedita valanga di pubblicazioni. La loro qualità non sempre è stata notevole: ad avviso della scrittrice francofona Azza Filali (1952) la missione della letteratura non è spiegare la realtà, ma trasfigurarla. C’è chi adotta la rivoluzione come semplice sfondo storico, chi propone dure testimonianze di prigionia, autobiografie o diari, come esperienze catartiche. Tra questi autori, nel solco già tracciato dal compianto Gilbert Naccache, intellettuale comunista messo in prigione sotto Bourguiba, emergono Samir Sasi, autore di «Burj al-Rumi. I cancelli della morte» (2011) e Abu Bakr al-‘Ayyadi, con «Carte dal quaderno della paura» (2013), entrambi sull’esperienza di tortura subita sotto Ben Ali.
Per comprenderemeglio la genesi della rivoluzione del 2011, occorre riavvolgere il nastro della Storia tunisina di almeno un secolo: gli anni ’20 e ‘30 vedono la nascita dei primi partiti nazionalisti e dei sindacati e un fermento intellettuale sulla condizione della donna nell’Islam, con al-Tahir al-Haddàd (1899-1935), che scrive anche su divorzio e poligamia. Nella stessa decade, la resistenza contro la colonizzazione francese si accentua nell’estremo sud-ovest, in seguito allo sfruttamento del bacino minerario. Al-Bashìr Khurayyif (1917-1983), tra i più apprezzati romanzieri del Novecento, nel suo capolavoro «Datteri nel loro grappolo» (1969), racconta l’epopea di lotte e scioperi di minatori tunisini sfruttati. Dopo l’indipendenza del 1956, a più riprese quella stessa regione diventa teatro di sanguinosi scontri col governo che trovano eco in alcuni romanzi: le manifestazioni di Gafsa del gennaio 1978, passando per le rivolte del pane del 1984, fino alle recenti proteste del 2008 a Redeyef, lasciano un segno indelebile nella memoria collettiva. La costante è l’abbandono delle zone interne al loro destino da governi che hanno sistematicamente privilegiando solo le zone costiere, vetrina del turismo di massa: se tutti gli stranieri conoscono i tramonti di Sidi Bou Said, quasi nessuno ha mai visitato Sidi Bouzid, dove è partita la scintilla della rivoluzione del 2011.
Scene epichedi massicce manifestazioni nella capitale, che sembrano preludere agli eventi reali, si ritrovano ne «Il gorilla» (2011), di Kamal al-Riyahi (1974), scritto a partire dal 2008. Il titolo è il nomignolo affibbiato al protagonista, un uomo di colore, reietto della società, che ha il coraggio di sfidare il regime in un modo alquanto clamoroso. Shukri al-Mabkhout (1962), con L’italiano (e/o, 2017), ci offre il ritratto di una società in preda all’islamismo, da un lato, e ad un regime poliziesco, dall’altro. Gli eventi seguono la vicenda umana di un disilluso Abdelnasser e in parallelo la storia della sinistra sotto Bourguiba fino agli inizi degli anni ‘90.
Habib Selmi (1951), ne Le donne di al-Basatin (Atmosphere, 2020) svela contraddizioni e ipocrisie del periodo finale del regime di Ben Ali. Nello stesso periodo e atmosfera di corruzione generalizzata, stavolta nell’ambito della letteratura francofona, la già citata Filali ambienta Ouatann. Ombre sul mare (Fazi, 2015), tra sogni di emigrazione clandestina, perdita del senso di patria (watan) e sempre maggiori sperequazioni sociali.
Dopo il settembre 2001, quasi tutta la stampa italiana si pregiava di non sovraesporre la «dittatura balneare» di Ben Ali, sottolineandone invece il ruolo di lotta al terrorismo islamista. La Tunisia emergeva sempre come paese «moderato», sempre in bilico tra fantomatici «oriente e occidente». Già negli anni ’30, il geniale novelliere ‘Ali al-Du‘aji (1909-1949) rifletteva sull’identità del suo paese ne In giro per i caffè del Mediterraneo (Abramo, 1995). Dopo il 2011 il dibattito si concentra sulla questione linguistica (arabo o francese) per giungere a quella della laicità, soprattutto nella fase di promulgazione della nuova Costituzione.
Emna Belhadj Yahya (1945), in «Jeu de rubans» (2011) ci offre un ritratto intimistico di una professoressa divorziata che deve confrontarsi con una società in cui si vedono sempre più donne col velo. Per ironia della sorte il figlio si innamora di una studentessa che lo porta. «Les Intranquilles» (2014), della stessa Filali, è il ritratto ironico di una società disillusa, nonostante l’abbattimento del regime di Ben Ali. Le certezze dei vari protagonisti, che rappresentano diversi orientamenti di pensiero, improvvisamente crollano. Hélé Béji (1948), in «L’oeil du jour» (2013), nostalgicamente torna alla casa d’infanzia per riflettere sulla modernità «volgare» del suo paese, visibile nella nuova architettura e nel comportamento dei tanti che hanno assimilato solo il peggio dall’Europa.
In molti romanziprevale un tono di nostalgia per un passato multiculturale e si assiste ad un ripiegamento su sentimenti ed emozioni di uno spazio privato e familiare. Ci si attende poco o nulla dalla classe politica o dal prossimo. Spesso non si riconoscono più i figli, persi tra il sogno di lasciare il loro paese o quello di andare a combattere in Siria. Anche nel panorama linguistico qualcosa si muove. Il francese spesso era preferito all’arabo classico per esprimere, senza sensi di colpa, i temi del corpo e della sessualità: adesso si aggiunge l’arabo tunisino, la vera lingua madre che non ha mai avuto ufficialità, ma è parlata da tutti. Sembra un tentativo di rompere tabù legati alla sacralità dell’arabo e ai poteri che lo strumentalizzano. Un modo per liberare la lingua degli affetti più sinceri e immediati, e riconciliarsi con la sua propria tunisianità. A parte il noto oppositore Taoufik Ben Brik, entrano in scena i giovani Anis Ezzine e Amira Charfeddine, che affronta temi ancora scottanti come l’omosessualità ne «Il figlio della virtù» (2019).
il manifesto, 12/1/2021