Ancora una volta proponiamo alla riflessione il tema della riduzione dell’orario di lavoro generalizzata a parità di salario. Non solo per liberare il “tempo di vita”, per ridurre l’alienazione, per riprendere la contrattazione sull’organizzazione del lavoro sempre più tecnologizzata, per aumentare l’occupazione, ma anche per salvaguardare l’ecosistema dentro il quale viviamo a fatica.
Proponiamo un articolo di Mario Agostinelli e Bruno Ravasio apparso su il manifesto che ci aiuta a capire che… “l’inganno dello sviluppo guidato dal profitto e dalla crescita è giunto al suo punto più esposto. Ma senza una lotta consapevole, nata e irrobustita anche nei luoghi di lavoro, le attese di cambiamento potrebbero agevolmente essere soffocate. La riprova è offerta dallo stillicidio di convenzioni intergovernative sul clima o di riunioni dei «grandi» dove agli impegni non seguono decisioni”
Il rapporto fra tempo di lavoro e tempo di vita ha storicamente informato nel corso del secolo scorso le lotte per ridurre l’orario di lavoro. Ma oggi il dominio del tempo – nella produzione, nella comunicazione, nel consumo, nelle relazioni sociali – sta passando alle macchine e agli algoritmi che le governano. La scissione tra tempo di lavoro e tempo di vita si va così facendo sempre più irreversibile (e sempre più estranea alle aspirazioni delle nuove generazioni) dato che il senso del tempo è un intreccio di razionalità, memoria, senso del corpo, affettività, per niente coincidente con i tempi delle macchine più o meno intelligenti, quando queste vanno ormai alla “velocità della luce” 24 ore per sette giorni la settimana.
Tuttavia, nell’evoluzione del panorama sociale si possono cogliere alcuni segnali, la cui novità sta nel grande rilievo e nella dimensione planetaria che in essi viene a ricoprire il tempo. Riemerge infatti la dimensione tutta politica del tempo, sotto l’impulso di soggetti che – da Bergoglio, agli studenti, al movimento delle donne – denunciano la «colonizzazione» di ogni istante del vivente e la «predazione» incessante delle risorse naturali come cause delle emergenze e delle ingiustizie estreme generate. Occorre perciò dare un senso al conflitto per riconvertire l’economia e la produzione, praticare nuovi stili di vita, riprendere la sovranità popolare sui beni comuni, potenziare l’autonomia delle organizzazioni sociali, potrebbe informare l’azione del sindacato, il cui potere contrattuale verrebbe altrimenti a diminuire con il crescere della minaccia climatica. E ridare forza a una rappresentanza fortemente minata dall’insicurezza dell’impiego e dall’estensione di una inoccupazione strutturale, imposta dall’uso strategico di tecnologie e sistemi artificiali resi «incorporei» e sottratti alla contrattazione. L’inganno dello sviluppo guidato dal profitto e dalla crescita è giunto al suo punto più esposto. Ma senza una lotta consapevole, nata e irrobustita anche nei luoghi di lavoro, le attese di cambiamento potrebbero agevolmente essere soffocate. La riprova è offerta dallo stillicidio di convenzioni intergovernative sul clima (Cop21, 25, 26?) o di riunioni dei «grandi» (G7,9,12?) dove agli impegni non seguono decisioni.
Diventa allora indispensabile porre in connessione l’affanno espresso dalle nuove generazioni per un futuro che viene a mancare, con l’insofferenza di donne e uomini di fronte alle velocità «sovrumane» con cui il sistema di produzione e consumo capitalista li espropria del tempo di vita. Privandoli così della loro autonomia e della trasmissione dei beni comuni ai propri figli, mentre crea sfruttamento e scarti sia sul fronte del lavoro sia dal lato della natura. Il tempo smisuratamente prolungato a cui si è costretti in mansioni ed operazioni eterodirette, non è né naturale né inevitabile: anzi, una eccessiva capacità trasformativa del lavoro nuoce a tal punto alla biosfera da minacciarne la sopravvivenza.
Studio e lavoro, studenti e lavoratori, sono imprigionati in un’unica potente e pericolosa alienazione. L’aumento della disuguaglianza sociale, della precarietà del lavoro e dell’esistenza, la disuguaglianza di genere e la crisi climatica richiedono di individuare un “pugno di sabbia” da gettare nel meccanismo perverso per imporgli una torsione praticabile a livello di massa. Riteniamo che un’inversione possa prodursi con la rivendicazione di una radicale riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Sarebbe una buona idea non solo per il sindacato, ma per la rinascita della politica tout court, da inserire nella cornice del miglioramento della sicurezza sociale e di una pratica di riconversione ecologica finalizzata alla cura della Terra. I benefici sarebbero immediati, e si potrebbe addirittura scandire la riduzione in base agli obbiettivi di riduzione delle emissioni climalteranti. Si calcola che con un orario di lavoro uguale a quello medio europeo, gli Stati Uniti ridurrebbero del 20 % il loro consumo energetico e, più in generale, che ridurre dell’1% per ogni addetto le ore lavorate, diminuirebbe dell’1,46% le emissioni di CO2.
Inoltre, è l’organizzazione del lavoro nell’era elettronica e digitale che suggerisce di accorciare la durata delle prestazioni, dato che tra l’orologio al polso di un operatore fermo in una postazione in catena e l’orologio con cui si muovono i bit nel computer che lo controlla – o che lui “comanda” – scorrono tempi assolutamente differenti, che fanno sì che rispetto ad una operazione elementare della mente le istruzioni della macchina elettronico-digitale compiano qualche migliaio o milione di operazioni in più. Oltretutto, guidate da un algoritmo predisposto dall’esterno, anziché dall’esperienza o dalle capacità del soggetto operante col proprio sistema mentale, nervoso e muscolare. È come se, attraverso l’apparato tecnologico appositamente progettato, venisse creato del tempo in più, donato al «padrone» che ha progettato e introdotto a questo fine l’apparecchiatura artificiale più consona allo scopo, e venisse altresì sequestrato un tempo in meno per l’informazione e la conoscenza dell’operatore. Si provi a pensare ai viaggi in treno in cui il vicino di scompartimento, che ha già «timbrato il cartellino», continua a lavorare alacremente col suo smartphone collegato al server dell’azienda…
Ma, al fine, come si potrebbe dare priorità al nodo dell’orario? Pensiamo che occorra innanzitutto studiare, comunicare e contrattare quel che è diventato oggi il lavoro salariato ed eterodiretto e riconquistarne una funzione sociale. La riduzione dell’orario, in funzione di controllo sul comando dell’organizzazione del lavoro, ricomporrebbe la classe lavoratrice e, perfino, riuscirebbe ad interrompere a monte i meccanismi di esternalizzazione e la formazione fuori controllo delle filiere produttive precarizzate. Così come senza il senso della successione temporale non sarebbe possibile la sequenza delle lettere e delle parole del linguaggio – né sarebbe possibile la musica – va riconquistato un senso ed un fine del lavoro, intervenendo nella sequenza dei processi manuali ed intellettuali, nella loro durata, nella loro stessa finalità, frutto di decisioni democratiche che richiedono che a ciascun cittadino sia consentito tempo proprio e, al punto in cui ci troviamo, tempo liberato dall’accanimento sulle risorse della biosfera.
il manifesto, 20/2/2020