A trent’anni dalla morte del grande scrittore austriaco ci restano i suoi libri.
I suoi romanzi, il suo teatro: dolorosi, faticosi, nevrotici, direi disturbati, così splendidamente specchio interiore e sociale di un mondo malato, proprio il nostro mondo contemporaneo. Non quello delle metropoli ma dello spazio profondo e angusto di tutte le province d’Europa.
La narrazione di un mondo che nel momento della lettura poteva sembrare esasperata, ma che oggi ci pare compagna costante degli orrori quotidiani della nostra contemporaneità.
La libertà non conosce riguardi
Peppe Allegri
Oggi sono trenta anni senza il nostro amato, ossessivo, intrattabile, corrosivo, irridente Thomas Bernhard, morto il 12 febbraio 1989 a Ohlsdorf, vicino Gmunden, nella parte settentrionale di quell’Austria odiata per tutta la vita e con tutte le forze, perché la percepiva così morbosamente intrisa di cattolicesimo e nazismo – duramente conosciuto sulla propria pelle, da giovanissimo, essendo nato nel 1931. Eppoi, dopo, arrivò quel finto socialismo nazionalista e cattolico del secondo Novecento, chiuso in un opprimente provincialismo, insopportabile per la vocazione anarchica, libertaria, sovversiva, che Thomas Bernhard aveva ereditato dall’affezionatissimo nonno materno, lo scrittore di un solo romanzo Johannes Freumbichler.
Tanto che nelle prime pagine del suo ultimo, indimenticabile, amaramente ironico e straziante romanzo, Estinzione. Uno Sfacelo, ambientato in una Roma al contempo assolata e crepuscolare, affacciata sulla deserta Piazza della Minerva, descriverà il protagonista Franz Josef Murau, io narrante e alter ego del Nostro, come immerso nella sua assoluta, totale, libertà da famiglia, nazione, Stato, mettendo in bocca al proprio fratello questa descrizione:
«In questi vent’anni mio fratello mi ha invidiato senza sosta per essermene andato, per la mia megalomane indipendenza, come mi disse una volta, per la libertà che non conosce riguardi, e mi ha odiato.» (da Auslöschung. Ein Zerfall, 1986, trad. it. di Andreina Lavagetto, Estinzione. Uno sfacelo, Adelphi, 1996, p. 15).
La libertà che non conosce riguardi. Una libertà che sempre in quelle pagine, sfolgoranti, esaltanti, annichilenti, incontrerà l’arcivescovo, e assai mondano, Spadolini, innamorato della madre del protagonista, quello Spadolini che è il più seducente e il migliore tra gli attori di tutto il mondo, così viene descritto, ed «è un peccato che si esibisca solo entro la Chiesa cattolica e non in uno dei nostri maggiori teatri».
E quando lessi questo libro, nel 1996, il cognome Spadolini evocava quello di Giovanni Spadolini, morto solo due anni prima, il grande storico, intellettuale, bibliofilo, militante repubblicano, uomo politico, ministro, presidente del Senato e – soprattutto – primo Presidente del Consiglio non democristiano al principio degli anni Ottanta della nostra vituperata Prima Repubblica. Quegli stessi anni Ottanta, verso la metà, nei quali conobbi Thomas Bernhard, leggendolo per la prima volta, grazie al mio amico e fratello maggiore Federico – mio Maestro per troppo poco tempo, che da troppo tempo non c’è più – mentre nella più interna tra le province del centro Italia sentivamo in sottofondo gioielli incandescenti appena usciti: Dogs Blood Rising di Current 93, It’ll End in Tears di This Mortal Coil e Treasure di Cocteau Twins (1984), Halber Mensch di Einstürzende Neubauten e The Firstborn Is Dead di Nick Cave & The Bad Seeds (1985), quindi Zamia Lehmanni di SPK e Horse Rotorvator di Coil (1986). Nel viavai, circospetto e continuo, del suo monolocale che era la nostra, collettiva, miniera di conoscenze inaudite e indicibili, sepolcrali e scintillanti. Perché la letteratura, la musica, il teatro e l’arte in generale ci hanno salvato, a fianco della nostra piccola, sconclusionata, amicizia comune. Come al fianco di Spadolini, in giro per Roma, il giorno, le notti, la sera appena alzato/o tardi la mattina/dopo la colazione/prima di addormentarmi (Punk Islam, CCCP, sempre il 1984, di Ortodossia, sullo sfondo), a fianco di Spadolini l’arcivescovo, l’artista:
«Spadolini è anche artista, ho pensato seduto sulla poltrona, è artista in sommo grado, anche se non dipinge, anche se non fa musica. Molto spesso abbiamo camminato insieme per le vie di Roma, e lui mi ha salvato da ogni stato d’animo cattivo, da tutte le possibili disperazioni, soprattutto nei miei primi tempi romani, durante i quali non sapevo che fare di me stesso e ho cominciato a esser torturato da ossessioni, da mesi di insonnia, da propositi di suicidio. […] Facevamo insieme esercizi spirituali e molto spesso andavamo a mangiar bene a Trastevere, pensai, mangiar bene da un lato, pensar bene dall’altro, queste, molto spesso, le parole che Spadolini mi ha impresso nella mente. E che senza dubbio mi hanno salvato. Spesso si prendeva la briga di andare con me in campagna, semplicemente per la via Appia, per così dire all’infinito, al solo e unico scopo di salvarmi, e debbo dire che Spadolini è stato l’unico a riconoscermi nelle mie capacità». (Estinzione. Uno sfacelo, Adelphi, 1996, pp. 330-331)
Come il nostro Thomas Bernhard, l’uomo del Novecento che avremmo voluto conoscere, le cui parole abbiamo sentito e visto decine di volte, rappresentate a teatro, tra i molti, tra i migliori, da Carlo Cecchi, Umberto Orsini, Roberto Herlitzka, addirittura Alessandro Gassmann, quindi un abbastanza recente, eccellente, Franco Branciaroli nel Teatrante. Quel Thomas Bernhard che è stato forse l’unico a riconoscerci nelle nostre miserie, nei nostri desideri inappagati, di libertà irriducibile per mangiar bene da un lato, pensar bene dall’altro. E Desiderio inappagato, così è titolato un brevissimo, fulminante, amaramente disturbante e odioso racconto di cronaca del Nostro imitatore di voci Thomas Bernhard, che anche nella brevissima scrittura è un portento e noi lo declamavamo con ossessione, letteralmente provando a rappresentarlo con la voce coperta spesso dai suoni oscuri di quei capolavori su vinile, in quella sulfurea soffitta di imbalsamata provincia, più di trenta anni fa. Forse anche oggi, giusto trenta anni senza Thomas Bernhard, per sempre persi nel gorgo della sua affabulazione, in questa Roma di nuovo col sole, malgrado tutto, malgrado la vecchiezza nostra e di un Paese intero, per dirla con un trittico che sarebbe piaciuto all’autore austriaco, perché fatto da Boris Pasternak (autore nel 1932), Carmelo Bene (declamatore nel 1980), Andrea Pazienza (nuovamente autore con Zanardi nel 1987): La Vecchiezza è una Roma senza burle e senza ciance, che non prove esige dall’attore ma una completa e autentica rovina.
«Una donna di Atzbach è stata ammazzata dal marito perché nel fuggire dalla casa in fiamme aveva portato in salvo quello che secondo lui era il figlio sbagliato. Non aveva salvato il figlio di otto anni per il quale l’uomo aveva concepito grandi progetti, bensì la figlia alla quale l’uomo non voleva bene. Davanti al tribunale distrettuale di Wels, quando era stato domandato a quell’uomo quali progetti avesse mai in mente per quel figlio rimasto carbonizzato nell’incendio, egli aveva risposto che intendeva farne un anarchico e uno sterminatore che distruggesse la dittatura e quindi lo Stato.» (in Der Stimmenimitator, 1978, trad. it. di Eugenio Bernardi, L’imitatore di voci, Adelphi, 1987, p. 112).
OperaViva, numero 53, febbraio 2019