A differenza di Luciana Castellina noi pensiamo che questo non sia il primo errore di Mattarella, l’aver firmato il “decreto sicurezza” 113/2018, ad esempio…
Ma andando oltre verifichiamo solo quello che già sappiamo: disinformazione e superficialità (e questi sono errori dell’epoca), sommati alla sudditanza acritica ad un pensiero unico, liberista e “armato” dagli USA di Tramp, sono gli inciampi di Mattarella.
Noi abbiamo una certa difficoltà ad abbracciare la politica di Maduro, non solo perché inadeguata alla fase, ma soprattutto perché autoritaria, appoggiata su una elitès militare, e incapace di far leva e sviluppare la partecipazione popolare. La crisi c’é e la protesta popolare anche, un governo socialista (come si definisce quello di Maduro) ascolta il popolo, a lui si richiama e coinvolge il popolo nell’autogoverno!
Di un’altra cosa non ci stupiamo, a differenza di Castellina, della posizione del PD, sia nel merito che nel metodo: la politica del PD da tempo ha perso l’orizzonte di “sinistra”, e quando più o meno casualmente lo incontra trova sempre molte difficoltà ad agire di conseguenza. Le altre volte evita di indicare una prospettiva di sinistra perché ha scelto le compatibilità con il quadro economico e politico presente, senza alcun accenno di critica, schiacciato dall’ossessione della governabilità e dell’alternanza.
Il testo di Castellina e apparso su il manifesto del 7 febbraio.
No presidente Mattarella, davvero no. Io sono fra quelli che hanno sempre avuto per lei massima stima, ma credo che questa volta lei sia davvero in errore.
Luciana Castellina
Dare legittimità a Guaidò è contro ogni regola democratica, significa opporsi alla posizione assunta dalle Nazioni unite che, con tutte le sue debolezze, è però tutt’ora una delle poche istituzioni che ci garantiscono il rispetto, almeno formale, di qualche diritto internazionale.
Significa rifiutare la ragionevole proposta di dialogo avanzata da papa Francesco che è uno che l’America latina la conosce molto bene.
Temo ci sia, sul Venezuela e la sua crisi, una grande disinformazione.
Bisognerebbe forse ricordare che quelli che oggi sostengono questo signore autoproclamatosi presidente (fra cui la notoriamente pessima rappresentanza della comunità italiana) sono stati coloro che un golpe l’hanno fatto nel 2002 contro il presidente democraticamente eletto del Venezuela, Hugo Chavez. Lo arrestarono, addirittura, e c’è un bel documentario trasmesso allora dalla Bbc, che consiglierei di proiettare al Parlamento europeo a Bruxelles, in cui si vedevano i golpisti su un palchetto, un insieme che sembrava tratto dal famoso affresco di Diego Rivera nel Palazzo del governo di Città del Messico: l’oligarchia del paese, le signore in cappellino, il vescovo, gli alti gradi dell’esercito, l’ambasciatore americano, a sigillare un’altra delle consuete operazioni «nel cortile di casa» (guarda caso, affidata in questo caso proprio allo stesso uomo cui adesso è stato rinnovato l’incarico da Trump, Abrams.). In strada una immensa folla scesa dalle poverissime favelas di Caracas a difesa del loro presidente, il primo in questo disgraziato paese che avesse collocato al primo posto del suo programma la lotta alla miseria. E che così riuscirono a liberarlo. Mentre tutte le emittenti tv del paese, da sempre in mano ai golpisti, proiettavano, per occultare l’accaduto, Tom e Jerry. Già allora l’ambasciatore spagnolo, per conto dell’Ue, si era precipitato a riconoscerli.
Da allora tutte le elezioni del Venezuela sono state monitorate da commissioni internazionali, ma sui muri dei quartieri eleganti della capitale, ho avuto modo di vedere coi miei occhi le scritte insultanti contro un ex presidente degli Stati Uniti che aveva diretto una di queste missioni per conto dell’Onu e le aveva giudicate corrette: «Carter uguale Chavez, e, peggio, «Carter Kgb».
Lo scontro di classe in America latina è asprissimo, la sfacciataggine con cui le sue élites operano dipende dalla secolare convinzione che esse nutrono di essere padrone del continente, per discendenza imperiale. Esser stati sfidati da un povero indio, figlio di maestri elementari dell’estrema Amazonia, che ha osato bloccare la privatizzazione della Pdvsa, l’azienda petrolifera, avviare la riforma agraria e distribuire i dividendi della più importante ricchezza del paese nelle favelas (dotate anche di emittenti radio gestite localmente) è stato considerato inammissibile.
NESSUNO di chi oggi si schiera in favore di un decente dialogo fra le parti sottovaluta gli errori commessi da Maduro, un personaggio che non ha certo la statura di Chavez, purtroppo strappato alla vita ancora giovane da un maledetto cancro. Questo stesso giornale li aveva segnalati in dettaglio pubblicando un articolo (giugno 2017 ), scritto, l’indomani di una sua visita a Caracas, dal compianto Francois Houtar, lo straordinario sacerdote belga purtroppo ora defunto che da anni viveva in Amerca latina. Il quale, pur denunciando con forza le illegalità della opposizione e la sua violenza, rimproverava giustamente il presidente di aver sottovalutato il rischio di varare una nuova Costituzione, pur legittimata da un regolare voto popolare, e però senza la partecipazione dell’opposizione che aveva boicottato il voto astenendosi; la marginalizzazione dei critici della stessa propria parte; di rivolgersi solo ai propri sostenitori come un agitatore anziché parlare a tutto il paese, come è d’obbligo per un presidente, che deve cercare di interpretare le ragioni dei suoi pur ristretti ceti intermedi. E, soprattutto, di aver redistribuito la ricchezza petrolifera (l’80% della valuta straniera che entra nel paese) ma di non aver saputo impostare un diverso modello di sviluppo economico, meno dipendente dalle fluttuanti sorti dei barili di oro nero. Ma questo è, purtroppo, un problema generale di tutti i governi di sinistra che hanno tentato in questi anni di operare una svolta in America latina. Perché uscire dalle rigide regole imposte dai potenti al sistema mondo è difficilissimo.
Proprio Chavez ci aveva provato avviando l’Alleanza bolivariana, il tentativo di unire i paesi che stavano cercando di spezzare le catene – l’Argentina di Kirschner, la Bolivia di Morales, l’Uruguay di Vasquez, il Brasile di Lula – per acquisire la forza necessaria a resistere. Purtroppo il sistema oppressivo si è dimostrato più forte, e quei governi di sinistra sono caduti uno a uno. Salvo in Bolivia e nell’Uruguay, dove non a caso si tiene la riunione che tenta la via della mediazione nello scontro venezuelano, impegnando nel negoziato il suo leggendario ex presidente, Pepe Mujica, ex guerrigliero e anche il solo politico invitato dal papa all’ultimo raduno dei movimenti popolari, a Roma, nel 2016. Su questa vicenda la si può naturalmente pensare come si crede, ma sarebbe d’obbligo interrogarsi su quale sarebbe l’alternativa ove vincesse Guaidó. Sono davvero sicuri i parlamentari europei che, da Bruxelles, l’hanno nominato presidente del Venezuela, che nelle favelas si vivrebbe meglio se a vincere fosse lui? Basta andare addietro nella storia per sapere cosa è stato fatto, in passato, dai governi venezuelani. Persino quelli pur ipermoderati che avevano cercato di avviare qualche misura popolare sono stati travolti; oggi i partiti che li avevano incarnati sono stati spazzati via: non sono loro dietro all’opposizione attuale.
Certo che c’è miseria oggi in Venezuela e che per questo parte della popolazione anche povera protesta (ma non sarebbe male se la tv italiana mostrasse anche le immagini di coloro, tutt’ora tantissimi, che manifestano a Caracas in favore di Maduro). All’origine della crisi drammatica del paese ci sono infatti certamente gli errori di Maduro, la rozzezza della sua leadership, e anche la corruzione di troppi funzionari statali, ma il primo responsabile della crisi è proprio il boicottaggio internazionale.
Ho letto poco fa un tweet di infervorato sostegno a chi ha adottato verso il Venezuela la posizione di Trump: di Matteo Renzi. È la posizione ufficiale del Pd? Davvero non avrei mai pensato che arrivasse ad opporsi all’attuale governo da posizioni di destra.
il manifesto, 7/2/2019