Charles Mingus, furia e lievità
Moriva il 4 gennaio, nel ’79, uno dei grandi innovatori del jazz, irascibile, gentile, geniale . Definito «una caldaia di emozioni», le sue musiche riflettevano un carattere terribilmente complesso. «Io sono tre», ricordava spesso. Il ricordo di un artista che continua a vivere, indignarsi, intenerirsi, inasprirsi anche 40 anni dopo. Nel suo «eterno teatro della coscienza»
Guido Festinese
Che fosse burbero e irascibile come braccio di ferro, pronto a scattare come una molla, a dispetto del corpaccione che si ritrovava, è dato appurato. Al più si possono ripercorrere le storie, che forniscono un ritratto dell’uomo che potrebbe anche apparire lievemente inquietante.
Gesti inconsulti
Charles Mingus detto (anche se lui lo odiava) Charlie, genio del jazz, scomparso a cinquantasei anni esattamente quarant’anni fa, il 5 gennaio ’79, aveva una personalità scissa su più faglie di confine. Era una persona complessa, capace di improvvise tenerezze e generosità inusitate, ma anche di ribollire di rabbia in una frazione di secondo, abbandonandosi a gesti inconsulti dalla potenza distruttiva. Di eccessi a ogni livello: digiuno totale, ad esempio, o quasi quattro chili di gelato ingurgitati con voracità. Astinenza, o sesso sfrenato. Una «caldaia di emozioni», come l’aveva definito il critico Nat Hentoff.
Era nato in un posto difficile e in un’America ancora spietatamente razzista: Nogales in Arizona la città col nome in spagnolo degli alberi di noce, al confine col Messico, che oggi è attraversata da un muro nell’illusione trumpiana di tenere lontani i poveracci messicani. Peraltro in Messico Mingus ci andrà a morire, a Cuernavaca, il Messico esplorato musicalmente con incandescente vitalità di un album come Tijuana Moods.
Mingus era cresciuto nel ghetto di Watts, alla periferia di Los Angeles con due sorelle, un fratellastro, e una matrigna che lo inizia, giovanissimo, alle funzioni religiose della Holiness Church, dove il sacro è anche e soprattutto fisicità, trance, pathos estremo, grido liberatorio, teatro: tutti elementi che saranno ben presenti, nella sua, musica, quando imboccherà vie diverse dal pur notevole camerismo sperimentale algido e «cool» delle sue origini, modellato sui primi studi classici di violoncello e trombone. Mingus da ragazzino era una figura sgraziata, e si sentiva a disagio nel suo corpo e con quel colore di pelle scaturito da mille incroci: c’era sangue svedese, africano, cinese e nativo americano nella sue vene, era un mulatto con sfumature giallastre. Quando a quindici anni riesce ad entrare nell’orchestra sinfonica della Jordan High School diventa lo zimbello degli altri ragazzi neri, che considerano «una specie di bastardo, più chiaro di alcuni, ma non abbastanza chiaro da appartenere all’élite dei quasi bianchi, e non abbastanza scuro da far parte dei neri bellissimi ed eleganti».
Straziante
Prima ancora c’erano stati gli insulti dei ragazzini messicani per la sua componente nera, perché, scriverà poi Mingus «se fra i tuoi antenati c’è anche un solo negro sarai sempre un negro per qualsiasi pidocchioso o testadicazzo pelle bianca, non importa se sei nero come il carbone o giallo».
Mingus subisce e cerca di schivare, ma a volte non ce la fa proprio. E matura così quella schizofrenia profonda, nel carattere, che lo induce a questa nota e straziante confessione, nella sua autobiografia significativamente intitolata Peggio di un bastardo ( Beneath the Underdog) : «In altre parole, io sono tre. Il primo sta sempre nel mezzo, senza preoccupazioni, senza emozioni; osserva e aspetta l’occasione di esprimere quello che vede agli altri due. Il secondo è come un animale spaventato che attacca per paura di essere attaccato. E poi c’è una persona piena d’amore e di gentilezza che permette agli altri di entrare nella cella più sacra del tempio del suo essere, e si fa insultare, si fida di tutti, firma contratti senza leggerli, si lascia convincere a lavorare sottocosto o gratis, e quando si accorge di quello che gli hanno fatto gli viene voglia di uccidere e distruggere tutto quello che ha attorno, compreso se stesso per punirsi di essere stato tanto stupido. Ma non ce la fa: e si rinchiude in sé stesso». Nel ’53, musicista maturo, fresco fondatore con Max Roach dell’etichetta indipendente d’assalto Debut (quasi uno scandalo, per dei neri) spesso sui palchi con Parker e Stan Getz, riceve una chiamata per l’ orchestra di Duke Ellington. il suo idolo, il Duca del jazz. Oggetto di venerazione da quando, a nove anni, era rimasto folgorato da un ascolto radiofonico.
Orchestra elegante
Mingus era tutt’altro che inadatto a entrare nei ranghi della più elegante orchestra della scena afroamericana, guidato dall’uomo geniale «tutto sorriso e ventagli», come ha scritto con ellittica eleganza Paolo Conte. Era un musicista completo, a proprio agio con partiture complesse, capace di ottima lettura a prima vista (anche se qualche suo collaboratore di formazione accademica smentisce), con un’intonazione perfetta e un suono robusto e immediatamente riconoscibile. Il fatto successe nel gennaio del ’53.
Nei ranghi della Duke Ellington Orchestra in quel momento c’era Juan Tizol, portoricano, snob, fine arrangiatore e trombonista. Uno dei molti che erano arrivati a New York, seconda ondata «storica» dopo centinaia di migliaia di approdi dai Caraibi a New Orleans, alcuni decenni prima. Succede che Juan Tizol affida a Mingus un solo per contrabbasso con archetto scritto. Mingus lo traspone all’ottava sopra, per renderlo più «cantabile», quasi un ricordo di quando imbracciava prevalentemente il violoncello, e lo suona. Poco dopo Tizol, nel camerino sotto il palco gli dice che lui, Mingus, «è come il resto dei negri della banda: non sa leggere bene la musica». Mingus lo costringe a salire la scala a calci nel sedere. E prende posto in orchestra. Nel momento in cui Ellington fa partire la musica, un ringhioso Tizol armato di coltellaccio si avventa su Mingus che, con incredibile agilità, salta sul pianoforte con in braccio il contrabbasso.
In fuga
Riesce a sfuggire, torna con un’ascia da pompiere e spacca in due la sedia di Juan Tizol. A quel punto Ellington, con l’eleganza sublime che lo contraddistingue, è costretto a licenziare Mingus, e lo fa con una formula di tornita, ironica raffinatezza: «Realmente Charles, questo è distruttivo. Tutti sanno che Juan ha un coltello ma nessuno lo ha mai preso sul serio. Gli piace tirarlo fuori e mostrarlo alla gente, capisci? Perciò ho paura Charles che dovrai lasciare la mia banda. Non ho bisogno di nuovi problemi. Juan è un vecchio problema che riesco a tenere a bada , ma tu mi sembri capace di una nuova serie di trucchi. Debbo chiederti di essere così gentile da darmi gli otto giorni, Mingus». Sopraffatto dalla cortesia, Mingus commenta: «Dal modo gentile in cui te lo dice, è come se ti facesse un complimento. Sentendoti onorato gli stringi la mano e ti dimetti». Per un Ellington capace di intercettare la fragilità dell’uomo dopo aver compreso la grandezza del musicista (si ritroveranno per un clamoroso album in trio con Max Roach nel 1962, Money Jungle), c’è un’America bianca ancora rabbiosamente razzista.
Ottimo ingaggio
Nel ’49, ad esempio, Mingus aveva trovato un ottimo ingaggio in una sorta di super trio grazie anche all’indifferenza per il colore della pelle di due grandi musicisti, il chitarrista Tal Farlow e il vibrafonista Red Norvo. Mingus all’epoca è sposato con una ragazza bianca, ma scopre con amarezza che negli spostamenti nel sud devono usare due macchine, in quattro: quando si avvicinano alle città la ragazza deve spostarsi dall’auto dove siede con Mingus a quella di uno di due musicisti bianchi, pena grossi guai se fermati. E rogne anche maggiori nel prendere le stanze in albergo, dove uno dei musicisti deve figurare come marito.
A colori
Facile immaginare la disillusione e il rancore di Mingus, però, a New York, la sua città adottiva, quando il Trio strappa un ingaggio per un’importante trasmissione televisiva. A colori. Succede che Red Norvo, durante le prove in studio, viene fermato da un produttore che gli sussurra qualcosa nell’orecchio. E il «qualcosa» è che Mingus non sarà il bassista del Red Norvo Trio nella trasmissione. È nero, e in televisione i gruppi interraziali non sono graditi agli spettatori razzisti e ipocriti del l’epoca del «separate, but equal».
Un ultimo aneddoto sul carattere di Mingus, riportato dal compositore arrangiatore e clarinettista John La Porta. Bill Coss, grande critico, musicale, cattolico particolarmente infervorato abitava proprio di fronte a Mingus, nel Queens. S’era messo in testa di «convertire» Mingus, e ne parlò con un gesuita afroamericano particolarmente brillante, sconsigliandogli però di presentarsi a casa Mingus senza una sua telefonata: ignorato. Il gesuita chiamò Mingus e si presentò a casa Mingus, che all’epoca viveva con la bella moglie (bianca) Lucille Gemansi Nielsen, nota come Celia, entusiasta di occuparsi quasi a tempo pieno della Debut, l’etichetta discografica. Subito dopo essere entrato, il prete cominciò a rivolgersi alla donna, alla presenza di Mingus, rimproverandole di aver sposato un nero perché era, secondo lui, raffinato e chic sposarsi con un musicista black, e che non era stato vero amore. A quel punto Mingus chiede al sacerdote: «Lei è veramente pio e crede veramente, no?». Il sacerdote rispose che si sforza di esserlo, senza dubbio. Mingus risponde: «Se per caso lei non è animato da fede ardente, se non crede abbastanza le conviene inginocchiarsi subito, perché adesso vado in cucina a prendere il coltello più grande che c’è. E così successe. Con il gesuita che se la dava a gambe terrorizzato giù per le scale. Sempre La Porta racconta che una volta, al locale Five Spot, Mingus arriva col contrabbasso per provare.
Danneggiato
Lo lascia appoggiato a una sedia, dopo la prova, e quando va a riprenderlo lo trova danneggiato. Senza dire una parola si precipita fuori dal locale, cerca il primo ferramenta e lì compra un’ascia. Torna al locale, e riduce il pianoforte della saletta in mille pezzi. Questo il ritratto del Mingus caratteriale e impossibile di cui fecero le spese anche i denti del trombonista Jim Knepper, che pure lo perdonò e continuò a suonare la sua musica. Mingus era anche altro, s’è detto, ed è impressionante scoprire – ripercorrendo la sua musica anno dopo anno per come ce la restituiscono i documenti discografici e i video – come nel ribollente «calderone delle emozioni» che gli dettava la musica ci fosse spazio per tutto: per il grido e il furore, per la compassione, per l’amore verso i maestri riconosciuti della storia del Jazz, da Ellington fino a risalire, vertiginosamente, a Jelly Roll Morton. Per la ribellione a uno stato delle cose che sembrava fatto apposta per tarpare le ali alla parte più creativa e innovativa dei musicisti jazz che cercavano nuove strade: nel ’60, ad esempio, Mingus fu uno dei propugnatori della formidabile esperienza dei Newport Rebels. Era successo che al Festival ideato dalla ricca coppia borghese Elaine e Luis Lorillard e gestito da George Wein tanti musicisti a caccia di nuova autenticità non erano stati invitati. Mingus allora assieme a Max Roach e altri si inventò un contro – festival attiguo all’area di quello ufficiale, con lo spazio per le tende, l’ingresso a 5 dollari per tutti, e i soldi raccolti dallo stesso corpulento compositore col cappello in mano.
L’intuizione
Non abbiamo testimonianze video di quella formidabile intuizione, ma ci restano molte foto. Fatto salvo che, l’11 novembre 1960, Mingus poté riunire in studio i «ribelli di Newport», per un disco favoloso uscito per la Candid (etichetta estemporanea tutta sostanza ideata dal critico marxista Nat Hentoff) in cui suonano Ted Curson, Booker Ervin, Paul Bley, Dannie Richmond, Jimmy Knepper, Tommy Flanagan, e perfino Roy Eldridge, il trombettista che fece da tramite tra la generazione degli swinger e quella dei bopper. Era passato appena un anno dalla pubblicazione del maestoso Ah Hum, il disco del ’59 che contribuisce a innescare una fumigante rivoluzione estetica nel jazz moderno assieme ad altre opere eccellenti di Davis, Coleman, Brubeck, Sun Ra, Gil Evans. In Ah Hum, peraltro, si trova un altro, inequivocabile segno del furore mingusiano contro i razzisti di ogni ordine e grado: il brano Fables of Faubus.
Favolette
Le «favolette» sono quelle riferite al governatore razzista dell’Arkansas, Orval Faubus, che non esitò a mandare la guardia nazionale per impedire il legittimo accesso all’università ad alcuni ragazzi afroamericani, dopo che una sentenza federale aveva messo su carta l’impossibilità di mantenere il regime segregazionista nei campus.
Grande reazione nera, ed alla fine Faubus si trovò contro perfino un riluttante presidente Eisenhower che dovette accogliere la tesi antirazzista sancita per legge. Successe dunque che le Fables of Faubus mingusiane su Ah Hum uscirono come un brano musicale lievemente grottesco e parodico, su un tempo di marcetta di sinistra e sospetta allegria: ma in origine c’era un testo fremente e sprezzante di Mingus, che fu costretto dalla Cbs ad eliminarlo dalla versione «ufficiale», salvo poi riuscire a recuperarlo l’anno dopo sempre per l’etichetta Candid su Charles Mingus presents Charles Mingus.
Voci in campo
Di quanto sia stato laboratorio aperto innovativo e sostanziale la musica di Mingus sempre meno ancorata ai pentagrammi occidentali, al primato dell’occhio che legge la partitura e sempre più vicina a una sorta di «teatro della coscienza» afroamericano, con i musicisti chiamati a dialogare all’impronta fra loro come se i loro strumenti fossero voci in campo, ce lo racconta una buona messe di dischi che negli ultimi tempi s’è aggiunta alla discografia ufficiale del geniale bassista compositore.
Non viene scalfito, naturalmente, l’impianto generale che conosciamo della musica, ma si mettono in luce, come sempre accade, parecchi angoli nascosti o trascurati. Andiamo in ordine cronologico. Un primo cofanetto da tre cd (Air Cuts) è riferito alle trasmissioni radiofoniche del Wado dal Birdland tra il 21 ottobre 1961 e il 1962, trasmesse in diretta, ed è accreditato a Charles Mingus & The Jazz Workshop All Stars.
Il maestro di cerimonie è il leggendario Symphony Sid ( al secolo Sid Torin), inconfondibile voce da dj mille volte campionata dai rapper. Si tratta del periodo che precede la pubblicazione del formidabile Oh Yeah, e molte delle compoizioni di quel disco ruggente in cui Mingus recupera la memoria di bambino presente alle cerimonie della «chiesa santificata» sono qui presentate in anteprima: ad esempio ben sette versioni diverse di Eat that Chicken, rutilante shuffle dedicato a Thomas ’Fats’ Waller. Poi Hog Callin’ Blues, Devil Woman, e la formidabile furia grezza di Oh Lord, Don’t Let Them Drop that Atomic Bomb on Me.
Nuovi equilibri
Nel cofanetto sono presenti almeno sei differenti line up del gruppo, unica presenza continua il batterista Dannie Richmond: Mingus era evidentemente alla ricerca di nuovi equilibri, e la prima sponda a cui legare la sua musica è cooptare il formidabile pianista Jaki Byard.
Nelle prime prove Mingus rinuncia al contrabbasso, lasciato tra le mani affidabili di Doug Watkins,e siede dietro al pianoforte. Ha nella band Yusef L ateef e Roland Kirk, strepitosi fiatisti, mentre nei brani incisi tra il 24 marzo e il 31 c’è in azione la coppia di tenori Booker Ervin e Charles McPherson. Le registrazioni dal 5 maggio al 12 del ’62 segnalano l’ingresso in formazione di Toshiko Ashiyoshi al piano mentre, in ottobre, arriva il poderoso sax baritono di Pepper Adams. Il 5 maggio ’62 Mingus torna dietro i tasti bianchi e neri: prova generale, in pratica, per l’album del ’63 Mingus Plays Piano.
Un bel laboratorio, insomma. Da accostare a un cd singolo che va a documentare un periodo non esattamente felice di Mingus, provato da dissesti finanziari e problemi di salute. Il cd è Live at the Jazz Workshop, Boston, October 11th, 1971, e coglie Mingus nel momento in cui era stato chiamato a insegnare all’Università di Buffalo, New York. L’artista racimolava anche qualche data dal vivo, e questa, trasmessa dalla Wbcn-Fm lo vede all’opera con John Foster al piano, Joe Gardner alla tromba, Roy Brooks a sostituire degnamente il fido Richmond, in quel momento attivo in gruppi rock per racimolare qualche soldo in più. Non una formazione stellare, dunque, ma con il prezioso cameo di Hamiet Bluiett al sax baritono, un gigante dell’ingombrante strumento che non ha ma raccolto davvero quanto seminato nel corso della sua bella vita musicale, purtroppo spentosi nell’ottobre di quest’anno. E un’altra chicca: un incredibile solo bluesy di Brooks in Blues for a Saw, eseguito appunto con una sega suonata con l’archetto.
Infine, ultimo arrivato, il monumentale Jazz In Detroit/Strata Concert Gallery/46 Selden della Bbe: cinque cd che ricostruiscono una «residence» di Mingus nel 1973, dove ritroviamo Gardner e Brooks, ma arriva il possente Don Pullen al piano, e il sassofonista John Stubblefield, di cui non si conoscevano incisioni con Mingus, cacciato, al solito, prima di entrare in un vero studio di registrazione.
C’è anche un inedito, Dizzy Profile, mai apparso altrove, e un brano che rispunterà a sorpresa quattro anni dopo questi concerti, Noddin ’Ya Head Blues. La scoperta è di Amir Abdullah, dj: i nastri li aveva Hermine Brooks, vedova del «batterista sostituto» Roy Brooks. Mingus continua a vivere, indignarsi , intenerirsi e perdere il lume della ragione anche quarant’anni dopo.
il manifesto, Alias, 5/1/2019