Pubblichiamo l’intervista al Segretario del Fplp Ahmed Sa’adat apparsa su il manifesto del 9 novembre. E’ molto interessante perché se ne ricava un quadro dello stato della sinistra politica palestinese, delle sue analisi e delle “nuove” proposte che vengono formulate.
La Palestina sarà liberata dal popolo escluso dalle élite
Intervista a Ahmed Sa’adat …di Stefano Mauro
Per la prima volta dopo oltre un decennio, il segretario generale del Fronte popolare per la Liberazione della Palestina parla con un giornale straniero dal carcere: «La via per la libertà: il ritorno dei rifugiati e la creazione di un unico Stato libero, democratico e laico. Per farlo dobbiamo ricostruire il nostro movimento nazionale, l’Olp»
Ahmed Sa’adat è diventato segretario generale del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp), il più importante partito della sinistra radicale palestinese, nel 2001 dopo l’assassinio di Abu Ali Mustafa, ucciso da due razzi lanciati da un elicottero israeliano contro il suo ufficio a Ramallah. Come risposta un commando del Fplp uccise l’anno seguente Rahavam Zeevi, ministro israeliano e ideologo della deportazione dei palestinesi. L’Autorità nazionale palestinese fece arrestare Sa’adat che, nonostante il parere contrario dell’Alta Corte di giustizia palestinese, rimase nel carcere di Gerico fino al 2006.
Quell’anno, in violazione di qualsiasi convenzione internazionalmente riconosciuta sulla detenzione, i militari israeliani prelevarono Sa’adat, lo deportarono nelle carceri israeliane e lo condannarono a 30 anni di carcere come «referente politico» di un’organizzazione considerata da Tel Aviv come «terrorista». Da allora vive nelle carceri israeliane e periodicamente viene tenuto in regime di isolamento per lunghi periodi, il che ha provocato una campagna di solidarietà (#FreeAhmedSa’adat) da parte della sinistra internazionale che ne chiede il suo rilascio.
Il manifesto, grazie alla rete dei detenuti del Fplp, è riuscito a intervistarlo dal regime carcerario in cui è segregato, dopo oltre dieci anni dalle ultime dichiarazioni rilasciate a quotidiani stranieri.
Come valuta la situazione attuale in Palestina e l’atteggiamento dell’amministrazione Usa di Donald Trump?
Per prima cosa voglio ringraziare il manifesto per questa intervista. È fondamentale comunicare ai lettori italiani e spiegare la visione della sinistra palestinese per l’attuale situazione in Palestina e nella regione. Vediamo gli Usa e l’amministrazione Trump come un potere pericoloso non solo per il popolo palestinese, ma per tutti i popoli del mondo. L’unica differenza tra Trump e le precedenti amministrazioni è che Trump mostra chiaramente la vera faccia del capitalismo e dell’imperialismo portando all’estremo l’utilizzo dell’egemonia e dello sfruttamento.
La decisione di nominare Gerusalemme capitale dello Stato israeliano e di spostare l’ambasciata da Tel Aviv è la naturale continuazione di 100 anni di colonizzazione in Palestina, dalla dichiarazione Balfour (1917), con l’obiettivo di annullare i diritti dei palestinesi e di accelerare la pulizia etnica del nostro popolo, specialmente per quanto riguarda Gerusalemme. Tutti i palestinesi rifiutano e combattono i tentativi di Trump di eliminare la questione palestinese. Il nostro popolo sta contrastando questo tentativo non solo a parole, ma con i fatti che sono la Grande Marcia del Ritorno di Gaza, una vera e propria rivolta popolare, dove è presente anche il Fplp, simile allo spirito della prima Intifada.
Quale strategia permetterebbe oggi la ricostruzione di un forte movimento di liberazione palestinese?
Il principale compito è la ricostruzione e la riunificazione del movimento nazionale di liberazione della Palestina. L’obiettivo principale è di mettere la Palestina, per l’ennesima volta, sulla strada della liberazione riaffermando l’essenza stessa della lotta palestinese. Questo riguarda principalmente il ritorno dei rifugiati e la costruzione di un unico Stato libero, democratico e laico in Palestina – non quella dei confini del 1967 – dove qualsiasi cittadino possa vivere in pace senza distinzione di religione o razza. Una profonda frattura nel movimento palestinese, a livello storico, c’è stata sicuramente dopo gli accordi di Oslo nel 1993: ha distorto il vero significato della nostra lotta e la reale essenza del conflitto. Un’intera generazione di palestinesi è nata e cresciuta illusa dopo la firma di quel catastrofico documento che ha portato solamente divisione e frammentazione nel movimento di liberazione palestinese.
Proprio in quest’ottica il nostro impegno è quello di ricostruire il fronte di liberazione nazionale, cioè l’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina): noi ci vediamo in mezzo tra Fatah e Hamas per creare un equilibrio e salvare l’unità nazionale, portando la nostra idea progressista, di sinistra e di rappresentanza di popolo. Tutte le classi palestinesi devono essere parte di questo processo di unità e le classi popolari non devono essere escluse dalla leadership del movimento, come lo sono state negli ultimi 40 anni.
Quale alternativa politica suggerisce quindi il Fplp?
Pensiamo che la premessa principale del cambiamento sia la partecipazione popolare in modo di consentire ai palestinesi di partecipare alla lotta – e al processo decisionale politico – in modo efficace e significativo. Ciò richiede non solo la lotta contro l’occupazione, ma anche la lotta per il diritto dei palestinesi a parteciparvi. Ad esempio, in Giordania, ci sono oltre quattro milioni di palestinesi. Lo stesso vale per i palestinesi in Libano, Siria e altrove, così come per quelli in Palestina. La partecipazione e la leadership popolare sono necessarie per la ricostruzione del movimento di resistenza contro il sionismo e per l’attuazione di una strategia unitaria per la liberazione della Palestina. Questo ovviamente deve avvenire in Palestina come nei territori della diaspora, in Europa o nelle altre parti del mondo dove ci sono palestinesi.
Se le nostre comunità sono sempre minacciate da ogni tipo di criminalizzazione, leggi repressive e attacchi da parte delle destre, allora i nostri obiettivi saranno più difficili da realizzare. Il punto fondamentale della nostra visione si fonda su questo: il diritto delle persone a partecipare allo sviluppo del loro futuro. È il processo democratico di rappresentanza per il quale stiamo combattendo a differenza di chi ha egemonizzato il popolo palestinese.
Nel 2017 il Fplp ha festeggiato il 50° anniversario dalla sua fondazione. Come valuta il suo ruolo attuale?
Il Fronte ha concluso il suo settimo congresso all’inizio del 2014 e ora ci stiamo avvicinando all’ottavo. Sarà un’opportunità per tutti i nostri compagni, dentro e fuori la Palestina, di valutare i nostri progressi e le nostre sconfitte. Negli ultimi anni, il Fplp ha affrontato tremende difficoltà in termini di repressione politica e finanziaria. Le persecuzioni, gli arresti di massa e l’uccisione dei nostri quadri ne sono un chiaro esempio. Nonostante ciò, siamo migliorati nelle nostre capacità militari a Gaza perché non affrontiamo le stesse condizioni che abbiamo in Cisgiordania. Lì subiamo sia l’occupazione che il coordinamento sulla sicurezza dell’Autorità Palestinese: numerosi compagni, come me, sono imprigionati proprio a causa del coordinamento tra l’Anp e l’occupante. Siamo, però, presenti in tutte le forme di lotta (militare, politica, culturale, sociale) all’occupazione e abbiamo fatto progressi in termini di partecipazione popolare anche tra i giovani, ma è sempre difficile ottenere dei risultati e visibilità (in confronto a Fatah e Hamas, ndr) a causa della situazione attuale. Nonostante le difficoltà siamo sempre impegnati in un processo di costruzione e crescita.
Quanto è cambiato il Fplp dalla sua fondazione fino ad ora?
È cambiato molto in questi anni, parliamo di mezzo secolo. Sono quattro le fasi nella vita del nostro partito. Il primo, che potrebbe essere identificato come «l’era giordana», dal 1967 al 1972; il secondo, l’esperienza della Rivoluzione palestinese e del Fplp in Libano, dal 1973 al 1982; la terza, la prima grande rivolta popolare palestinese, l’Intifada, dal 1987 al 1993; e per concludere la messinscena del cosiddetto processo di Oslo. I cambiamenti hanno interessato il Fronte su diversi livelli: politico, teorico, organizzativo. Queste trasformazioni ci hanno colpito come hanno toccato altri partiti: le guerre nella regione, gli accordi di pace tra i regimi arabi e Israele, la caduta dell’Unione Sovietica e del blocco socialista e il processo di svendita della nostra terra, etichettato come «processo di pace».
Tutti questi fattori hanno influenzato il Fronte, la sua forza e la sua analisi. Abbiamo fatto scelte ed errori che ci hanno penalizzato e che sono emersi, per alcune contraddizioni interne, anche nei precedenti congressi, visto che ci siamo sempre impegnati nell’autocritica. Siamo arrivati alla conclusione, dal 1992 a oggi, a causa delle destre palestinesi e la continua aggressione israeliana alle nostre terre e al nostro diritto di esistere, che il nostro partito, come il nostro popolo, attraversano una crisi globale: teorica, politica, economica. Pensiamo che questa crisi possa essere superata solo attraverso la resistenza e la lotta popolare a qualsiasi livello.
Qual è il ruolo del movimento dei detenuti nelle prigioni israeliane?
Il movimento dei prigionieri nelle carceri israeliane ha storicamente svolto un ruolo importante e centrale nella lotta all’oppressione sionista. Non solo nel nostro confronto quotidiano tra occupanti e prigionieri, come «prima linea», ma anche nella scena politica in Palestina. Bisogna ricordare che l’accordo di unità nazionale palestinese, chiamato «Documento dei Prigionieri», è stato redatto all’interno delle prigioni e costituisce la base di tutte le successive discussioni della resistenza palestinese. Il movimento dei prigionieri ha vissuto varie esperienze di lotta, scioperi della fame, con la morte di numerosi prigionieri sotto tortura. Noi detenuti politici siamo stati definiti l’avanguardia e il cuore della rivoluzione palestinese. Questo perché Israele stesso tenta di contrastare la lotta palestinese e i suoi leader con la reclusione, opprimendo qualsiasi movimento di resistenza: studentesco, femminista, sindacale o giovanile.
Le prigioni sono da sempre un luogo in cui tutte le differenti anime della resistenza si incontrano ed è proprio per questo che i palestinesi spesso definiscono le carceri «le scuole della rivoluzione». Non siamo separati dal movimento di liberazione fuori dalle prigioni, ma siamo un tutt’uno visto che i prigionieri provengono da tutti i Territori: Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme. Consideriamo come parte del nostro movimento anche i prigionieri politici palestinesi nelle carceri americane e francesi, in particolare Georges Ibrahim Abdallah, imprigionato in Francia da oltre 34 anni.
il manifesto, 9/11/2018