Aretha Franklin, la vertigine di una voce
…di Francesco Adinolfi
La regina del soul è morta a 76 anni, una carriera che ha segnato la storia della musica del Novecento. Icona del femminismo black e dei diritti civili, ha portato il gospel nelle sue interpretazioni blues e pop
Se ne è andata a 76 anni Aretha Franklin, regina del soul e icona del femminismo black. Nel 2010 era stata operata per un tumore al pancreas e da allora si sottoponeva a cure costanti. Nel 2017 aveva annunciato il ritiro dalle scene e confermato che avrebbe continuato a incidere dischi. La sua ultima apparizione risale allo scorso novembre in occasione dell’ Elton John Aids Foundation, in quello stesso mese aveva anche pubblicato A Brand New Me, un album di hits con sue tracce vocali d’epoca e nuovi arrangiamenti (e cori) curati dalla Royal Philharmonic Orchestra. La carriera artistica di Aretha Franklin non può essere disgiunta dalla storia della musica popolare del Novecento e in particolare della black music. Pezzi come Respect, (You Make Me Feel Like) A Natural Woman, Chain of Fools, Think, The House That Jack Built, Rock Steady (incisi per la Atlantic tra il 1967 e il 1979) e ancor prima One Step Ahead (ai tempi della Columbia, dal 1960 al 1966) raccontano una carriera illuminata da eventi indimenticabili come l’esibizione ai funerali di Martin Luther King (1968), durante l’insediamento di Barack Obama (2009) o anni prima, nel 1998, ai Grammy Awards in cui si lanciò in una improvvisata e travolgente Nessun dorma sostituendo l’amico Luciano Pavarotti tradito dalla gola qualche minuto prima di andare in scena. Tornerà ad omaggiare l’aria (passando dall’italiano all’inglese durante la performance) anche dinanzi a papa Francesco a Filadelfia nel 2015.
Esistono fiumi di inchiostro sulla sua carriera e sulla sua vita privata, infiniti resoconti di abissi e ascese come quelli raccontati in una recente biografia dell’artista da David Ritz (con cui Franklin aveva già collaborato nel libro Aretha: From These Roots). All’interno una vertigine di dettagli che la cantante aveva sempre tenuto per sé e si era spesso affrettata a smentire: l’alcol, l’attrazione smodata per il cibo, le gravidanze a 12 e 14 anni, le relazioni sentimentali sballate. Ma tant’e, quello che resta è il senso delle sue canzoni e della sua voce. Di brani come Respect o Think che nascevano direttamente dalle sue esperienze personali. Nel 1973 dichiarò alla rivista Essence che solo attraverso la musica era in grado di esternare quelle parti di sé che altrimenti non sarebbero mai affiorate. Nata in un ambito gospel, guidata dal padre, il reverendo C. L. Franklin, circondata da stelle del genere come Mahalia Jackson, Clara Ward o Sam Cooke, a 18 anni Aretha comunica al papà – che l’asseconda – il desiderio di cimentarsi con la musica secolare, con il pop, come stava facendo Cooke di cui era profondamente innamorata. Il risultato sarà presto sotto gli occhi di tutti.
Tra le vocalist che hanno abbandonato i cori delle chiese – Della Reese, Nina Simone, Dinah Washington ecc. – Aretha è, infatti, tra le poche musiciste in grado di trasferire il senso del «puro gospel» nelle sue interpretazioni blues o pop: l’interprete femminile più affine a Ray Charles, primo, grande «blues preacher», predicatore del blues. Come quest’ultimo anche Aretha si accompagnava al pianoforte seguendo la tecnica – altamente ritmica e coinvolgente – dello stride piano per poi tuffarsi nei pezzi con un’urgenza e una frenesia che non avevano eguali. Risentire la sua versione di I Say a Little Prayer, il classico di Burt Bacharach e Hal David, portato al successo da Dionne Warwick nel 1967, è una delizia.
Franklin cambia tutto, ai toni lievi del pezzo sostituisce un senso di convinzione e forza interiore che manca completamente nell’originale. Lo stesso avveniva con la sua versione di Respect, canzone scritta e eseguita da Otis Redding due anni prima. Se il «rispetto» di Otis è una metafora sessuale («lavoro, porto il pane a casa, tu fai quello che vuoi quando non ci sono, ma quando arrivo stai con me»), quello di Aretha è una storia completamente diversa. Pensato e cantato da un punto di vista femminile (e femminista), la protagonista del brano dichiara che «si comporterà bene quando tu non ci sei e che ti lascio anche i soldi, l’unica cosa che voglio è essere rispettata».
Di più: Aretha consegna il pezzo alla storia nel momento in cui si diverte a compitare, a fare lo spelling di «r-e-s-p-e-c-t», scandendo lettera per lettera, affinché non vi siano dubbi. E aggiungendo – rispetto all’originale: «Scopri cosa significa per me». Subito il brano si trasformerà in un inno femminista black, irrompendo negli Usa in un anno, il 1967, caratterizzato dal Movimento per i diritti civili, dalla guerra in Vietnam, dalle Pantere nere, dall’emendamento alla costituzione Usa per garantire pari diritti ai cittadini, senza distinzione di sesso. Schizzerà al primo posto delle classifiche Usa. Lo stile di Aretha era così coinvolgente che anche Miles Davis ne fu ammaliato. Nel 1968 il trombettista si incontrò con Leonard Feather, noto critico musicale jazz della rivista Down Beat.
Questi raccontò di essere rimasto scioccato dai dischi sparpagliati sul pavimento di casa del musicista. C’erano i Byrds, James Brown, Dionne Warwick e naturalmente Aretha Franklin. Era come se Miles avesse perso interesse nel jazz e i nuovi stimoli stessero arrivando da altri mondi, altri stili. Bizzarro che Feather si fosse sorpreso considerando che proprio Down Beat aveva nominato Franklin miglior vocalist femminile. Dell’immenso talento di Aretha si era ben accorto anche John Hammond, mitico produttore della Columbia, la prima grossa etichetta della cantante. Lo scopritore di Billie Holiday le propose subito un contratto come «five-percent artist», ossia cinque anni di contratto e grossi ricavi per l’artista. Al tempo Aretha aveva 18 anni; dopo poche settimane debutterà con il pezzo Today I Sing the Blues (titolo emblematico) irrompendo in quella sparuta lista di vocalist a cui non serve il cognome per essere riconosciute: Billie, Ella, Sarah, Dinah.
L’approdo alla Atlantic, uno scarto oltre il vocal jazz, blues, doo-wop e rhythm and blues della Columbia, la incoronerà «Queen of soul» trasformandola in una star planetaria. Dopo l’assassinio del padre nel 1979, l’artista lascerà la Atlantic e firmerà con la Arista. Prenderà parte al film The Blues Brothers e continuerà a incidere album come Jump to It e Who’s Zoomin’ Who?, che la rilanciarono dopo un periodo di appannamento. Nella sua carriera ha vinto 18 Grammy, ha cantato alle cerimonia di insediamento di tre presidenti Usa, è stata la prima donna ammessa alla Rock & Roll Hall of Fame (1987), è diventata la cantante con più pezzi in classifica di tutti i tempi. Eppure, quando la intervistavano, traspariva sempre quella timidezza infinita che si liquefaceva solo quando Aretha saliva su un palcoscenico. La stessa che la afferrò quando le presentarono un pezzo come Son of a Preacher Man, storia di una ragazza che si appartava con il figlio del predicatore.
Ripensando al papà e leggendo il testo, la ragazza arrossì e declinò l’offerta. La inciderà solo tempo dopo «nascondendola» sul lato b di Call Me e venendo quasi a patti con la sua travagliata vita famigliare (i comportamenti dissoluti del reverendo). «Perché – raccontò alla rivista Ebony nel 1964 – le parti più aspre delle montagne sono quelle più facili da scalare, su quelle con le pareti lisce non sai a cosa attaccarti».
il manifesto, 17/8/2018