Contro i muri riscopriamo la speranza
Intervista a Eugenio Borgna di Claudia Morgoglione
Nell’età della rabbia, il grande psichiatra, che ha appena compiuto 88 anni, invita a rispolverare una parola antica”. “Significa mettere in gioco il presente, liberandoci dalla paura e rieducandoci al confronto…
Lasciare una porta aperta, nel mondo dei Muri e delle barricate verso l’esterno. Una possibilità di dialogo, di incontro con l’altro, in un’Italia che chiama “nemico” il più debole. Come? Rispolverando una parola antica, dal suono dolcissimo: speranza. Ma attenzione, avverte Eugenio Borgna, a non banalizzare: «È un concetto lontano da quello che chiamiamo ottimismo o dalle illusioni, che sono proiezioni di aspettative e desideri egoistici. Significa invece mettere in gioco il presente, nutrendolo di passato e proiettandolo nel futuro. Liberandoci da rabbia e paura, e rieducandoci al confronto».
Un cammino difficile, senza certezze. L’unico che ci resta, secondo questo grande vecchio che proprio ieri ha compiuto 88 anni: psichiatra per una vita, poi autore di splendidi saggi su concetti etici come la responsabilità — l’ultimo, La nostalgia ferita, per Einaudi — è uno dei pochi intellettuali che davvero ha fatto della cura, del rispetto per gli ultimi (come chi soffre il disagio mentale) il baricentro dell’esistenza. Per questo ora osserva con preoccupazione un Paese «senza memoria», con leader «che guardano solo alle convenienze immediate».
Professor Borgna, prendendo in prestito una categoria clinica che lei ha studiato tanto, non le sembra che l’Italia di questi anni sia dominata dalla schizofrenia, da uno scarto tra razionalità ed emozioni sempre più violente?
La schizofrenia è la più enigmatica e oscura forma di sofferenza psichica che si conosca, ancora misteriosa nelle sue cause, che si manifesta come una rottura della propria individualità. Si sviluppano così due serie distinte di pensieri e sentimenti, che corrono lungo binari separati. Uno stato di cui parlo con prudenza, con angoscia. Ma che in effetti può essere utilizzato come immagine chiave per un’epoca in cui si è smarrito il senso di unità collettivo. In cui si pensa in un modo e si agisce in una maniera completamente diversa. Una scissione pericolosa.
Ricorda la schizofrenia anche la tendenza dei leader, e dei movimenti, a essere contemporaneamente di lotta e di governo. Schivando così le responsabilità che entrambi, ma soprattutto il secondo, comportano.
Anche questo è vero. Essere responsabili significa uscire dai confini della propria individualità, mettendosi nei panni degli altri attraverso il dialogo. Lo sosteneva già Schelling: solo se entriamo in relazione con chi è fuori di noi possono emergere le nostre capacità, attitudini, intelligenze. Questo è un punto cruciale. Secondo Lévinas, io sono responsabile non solo delle cose che dico e che faccio, ma anche del volto, dello sguardo dell’altro. Del silenzio, del dialogo segreto che emerge da volti e sguardi.
Ormai di silenzio ce ne è ben poco: il rumore social di fondo è fortissimo.
Perciò la responsabilità, individuale e collettiva, sembra perduta, travolta, soprattutto a livello politico, da fiumi di parole prive di pensieri autentici.
Alcuni attribuiscono questa deriva alla rivoluzione digitale.
Viviamo tempi di grandi rivolgimenti, sia nella comunicazione che nelle relazioni con gli altri. Che lo vogliamo o meno. E al centro ci sono le immagini, che prima in tv e ora sui social, ci dominano, ci inondano, ci sommergono. Uccidendo le parole, o meglio uccidendo il significato autentico che le parole posseggono. Le immagini inoltre possono essere facilmente strumentalizzate.
Comprese quelle di chi soffre, come i migranti sui barconi?
Sì: infatti il dolore che vediamo non ci provoca empatia ma finisce per rafforzare la nostra percezione individuale, egoistica. E così la relazione con questi esseri umani, la possibilità di dialogo, si blocca in partenza. E prevale il rigetto.
A questo proposito, e tornando alle metafore legate alla pratica clinica, si potrebbe dire che un’altra cifra del nostro tempo sia la paranoia: terrore dell’altro, complottismo…
In questo caso, però, preferisco non usare la parola paranoia, che implica una condizione di malattia che diminuisce la responsabilità. No, qui abbiamo a che fare con la paura, con la rabbia, che sono sentimenti. Emozioni forti, un fiume in piena che rischia di travolgerci. Ci fanno vivere solo nel presente: abbiamo paura del futuro, così lo rifiutiamo. Chiudendoci in un mondo in cui contano solo i nostri desideri e istinti. È la tragedia attuale: la perdita della relazione con gli altri.
Lei ha vissuto il Novecento, ne ha visto gli orrori: cosa prova quando sente tornare alcune parole – sui migranti, sui rom – a cui la sua generazione aveva detto “mai più”?
Oggi quella convinzione collettiva si è logorata, sbriciolandosi. Certo, anche nel dopoguerra l’Italia ha vissuto periodi violenti, ma contro quella violenza ci fu una rivolta morale. Ora invece siamo immersi in un presente senza passato né futuro. Come dimostrano i nostri leader politici, che guardano solo alle richieste e convenienze immediate, senza nutrirsi di memoria e senza prospettive a lungo termine. E chi è più fragile, più debole, ne paga lo scotto. Si pensa che la violenza venga da chi più ha sofferenza fisica, mentre l’esperienza ci insegna il contrario: viene dalle persone “normali”.
Uno scenario drammatico. Come si fa, malgrado tutto, a non perdere la speranza?
Bisogna maneggiare con cura le parole, che sono strutture viventi. Una cosa sono le speranze, al plurale: piccole cose di ogni giorno, molto vicine alle illusioni, legate all’ottimismo. Altra cosa, invece, è la speranza, al singolare. L’ottimismo ha a che fare con un futuro che noi obblighiamo a essere vicino ai nostri desideri personali; la speranza è l’aspettativa in un futuro che non conosciamo. Quel tipo di speranza senza cui non si può vivere, come diceva Leopardi: la percezione del tempo vissuto (non quello dell’orologio) che nasce dal passato, vive nel presente e ci porta nel futuro. Per Sant’Agostino, la speranza è la memoria del futuro; per Kierkegaard, la passione del possibile. È un’inclinazione a non fermarsi alle apparenze, ma a pensare che la condizione attuale, nostra e della società, non è mai definitiva: entrano sempre in gioco la creatività, il cambiamento.
C’è un metodo per coltivarla?
Dobbiamo partire dal nostro interno. Solo se sappiamo abbandonare le preoccupazioni immediate, guardando all’ignoto che è in noi — e non solo all’homo faber, all’uomo robot — possiamo tornare a immedesimarci negli altri, a vivere le loro, di speranze. Riallacciando il dialogo perduto.
Quindi finché ci resta una porta – magari chiusa, ma che potremmo riaprire – la speranza vive.
Esatto. Ed è così che l’impossibile diventa possibile.
la Repubblica 23.7.2018