Uno studio della Fondazione Di Vittorio evidenzia la realtà rimossa fino al 4 marzo: record di insicurezza lavorativa e sociale. La crescita è trainata dal lavoro a termine e dal part-time. Il contributo della «riforma» Poletti, considerata parte del Jobs Act di Renzi, e il fallimento del “contratto a tutele crescenti”. Emerge il quadro che permette di comprendere il richiamo del “reddito di cittadinanza” dei Cinque Stelle. La proposta è criticabile sotto molto aspetti, ma oggi c’è la possibilità di iniziare a discutere di un reddito sganciato dal lavoro precario. Una occasione necessaria per capire e aprire il confronto…
Ora sappiamo che il Jobs Act produce precariato
di Roberto Ciccarelli
La crescita in corso produce nuovi precari. Lo sostiene lo studio “Lavoro: qualità e sviluppo” elaborato dalla Fondazione Giuseppe Di Vittorio (Fdv) della Cgil. Rispetto ai proclami che hanno accompagnato il Job Act e l’introduzione del «contratto a tutele crescenti» – che avrebbe dovuto aumentare gli occupati a tempo indeterminato – la realtà è un’altra: continua a crescere il numero di dipendenti con contratti di durata fino a 6 mesi. Sono passati da meno di 1 milione nel 2013 a più di 1,4 milioni nel 2017 (dati Eurostat).
Dal 2015 al 2017, i primi anni della «riforma» renziana, il numero di assunzioni a tempo indeterminato è invece crollato dai 2 milioni del 2015 (anno dell’esonero contributivo per 36 mesi), ad 1 milione 176 mila del 2017 (-41,5%) a fronte di un notevole incremento delle assunzioni a termine (da 3 milioni 463 mila del 2015 a 4 milioni 812 mila del 2017, pari a +38,9%). La variazione netta totale annuale ( il saldo tra le attivazioni e le cessazioni dei contratti) del rapporti di lavoro a tempo indeterminato è passata da +887 mila del 2015 a -117 mila del 2017. Contemporaneamente la variazione netta dei rapporti di lavoro a termine è tornata positiva nel 2016 (+248 mila) ed è arrivata nel 2017 a +537 mila. Fino al 2015, prima del Jobs Act, era negativa: -216 mila. Nella stragrande maggioranza dei casi, rileva la ricerca, la scelta del contratto a termine non è volontaria da parte del lavoratore, ma imposta. Si tratta di lavori sempre più part-time: nel 2015 le assunzioni con contratti a termine part-time sono state 1 milione 248 mila e nel 2017 sono salite a 1 milione 937 mila (+55,2%). Circa la metà dell’incremento delle assunzioni a termine registrato tra il 2015 e il 2017 (+1 milione 349 mila) è imputabile a rapporti a tempo parziale (+689 mila).
Il boom degli occupati precari è dovuto a un’altra «riforma» del governo Renzi: l’eliminazione della «causale» dal contratto a termine che ha reso possibile rinnovarlo fino a cinque volte in 36 mesi. Tale modifica ha inciso sulle caratteristiche stesse del lavoro. Pur crescendo quantitativamente l’occupazione, la qualità del lavoro prodotto è sensibilmente inferiore. Il numero totale degli occupati rappresenta un’immagine molto parziale della condizione del lavoro in Italia, dove la qualità dell’occupazione è in progressivo e consistente peggioramento. Considerando insieme il numero degli occupati temporanei e quelli a part-time, complessivamente l’area del «disagio» occupazionale ha superato il record di 4 milioni e 571 mila persone, la più alta dall’inizio delle rilevazioni della Fondazione di Vittorio. I dati sono stati confermatati anche da una rilevazione dell’Eurostat. In Italia quasi un occupato su otto è a rischio povertà: l’11,7%. È uno dei più alti nell’Ue (9,6% di media). Fanno peggio solo Romania, Grecia, Spagna e Lussemburgo. Il lavoro non basta a garantire condizioni economiche adeguate, soprattutto se legato a un contratto precario o part time. «È evidente dai dati che la ripresa non è in grado di generare occupazione quantitativamente e qualitativamente adeguata, con una maggioranza di imprese che scommette prevalentemente su un futuro a breve e su competizione di costo» sostiene Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Di Vittorio, che chiede di incrementare gli investimenti, rafforzare gli ammortizzatori e riordinare le tipologie contrattuali.
Un altro dato è importante per descrivere la realtà del mercato del lavoro è quello sul numero delle ore lavorate. Rispetto al primo trimestre 2008, per convenzione l’inizio della crisi, è ancora ben al di sotto: -5,8% pari a 667 milioni di ore lavorate in meno, come anche il numero di unità di lavoro (-4,7%), pari a quasi 1,2 milioni. Questo significa che nemmeno la quantità del lavoro – ovvero l’insieme delle ore lavorate e delle unità di lavoro a tempo pieno – è come quella di una volta: è nettamente inferiore al livello pre-crisi.
Considerata la situazione non dovrebbe stupire l’attenzione ricevuta dalla proposta contraddittoria del «reddito di cittadinanza» avanzata dal Movimento 5 Stelle, insieme alla riduzione di orario a parità di salario, il salario minimo orario e investimenti pubblici. La proposta è in realtà un «reddito minimo» vincolato all’obbligo di un lavoro e formazione e, come abbiamo chiarito in questi giorni, rischia di implementare il lavoro precario, non di attenuarlo. In ogni caso, questo è uno dei fatti prodotti dal 4 marzo: davanti alla derelizione dell’occupazione, in Italia si inizia – molto faticosamente, in realtà – ad introdurre nel dibattito l’idea che possa esistere un reddito sganciato dal lavoro.
Per approfondire:
Che cos’è il “reddito di nascita” di Beppe Grillo
Italia paese di poeti, santi e teorici del reddito di cittadinanza. Ecco l’ultima trasformazione: il reddito di nascita di Beppe Grillo. Perché questa formulazione del “reddito di nascita” è una critica alla proposta sul “reddito minimo” del Movimento Cinque Stelle ed è anche il gemello terribile nazionalista del reddito di base. In questa mappa si spiega cosa sono le “politiche attive”, perché la “sinistra” è d’accordo (oppure non sa cosa sono) e a cosa serve questo nuovo lavoro di chi cerca un lavoro. Quella di Grillo è una critica marxista, come dicono alcuni commentatori? No, ecco perché. In questa mappa si traccia un’alternativa a partire dal concetto folgorante di “forza lavoro” creato da Marx. L’analisi
Non è mai troppo tardi per un reddito di base
Ecco come il “reddito di cittadinanza” è diventato l’argomento del momento. Nel racconto mainstream è giudicato come una politica assistenziale che spinge al lazzaronismo (magari dei meridionali). Un ‘indagine sulle forme esistenti, anche in Italia, dimostra invece che le varianti del “reddito” sono usate per aumentare la produttività e l’occupabilità delle persone. Questo è lo scopo anche del Movimento 5 Stelle. Dobbiamo rassegnarci a un nuovo sfruttamento? No, perché il “reddito di base” – la formula originaria di reddito – è una remunerazione della produzione che facciamo ogni giorno: sulle piattaforme digitali, ad esempio. O nel lavoro gratuito che ci costringono a fare. Ecco perché il movimento femminista rivendica oggi il “reddito di autodeterminazione”. La storia.
Perché la sinistra non ha capito nulla del “reddito di cittadinanza”
La “sinistra”, convinta “lavorista”, non ha compreso nulla della proposta di “reddito di cittadinanza” che sta facendo le fortune politiche del Movimento Cinque Stelle, né immagina le conseguenze di un sistema che rischia di creare un regime del lavoro coatto. Non è affatto “assistenzialismo”. Nella formulazione attuale è un’intensificazione delle politiche attive neoliberali. La storia di una progressiva, e inesorabile espulsione dalla nuova composizione sociale del paese. Il 4 marzo lo ha dimostrato in maniera clamorosa: oggi il reddito è terreno di battaglia politica. L’analisi
Reddito di cittadinanza, un termine trafugato dal Movimento Cinque Stelle (Marco Bascetta)
Oggi designa un sussidio in tutto e per tutto simile a quelli previsti nella logica della “lotta alla povertà” che si propongono di piegare, in un modo o nell’altro, comunque eterodiretto, i percettori temporanei del reddito alla disciplina di un lavoro purchessia. In realtà questo reddito non è rivolto all’indigenza degli “esclusi”, ma alla povertà attiva strutturalmente inclusa nel modo di produzione capitalistico contemporaneo.
il manifesto, marzo 2018