Il peso di Rosa
Che poi quel nome – Rosa – era sembrato strano a tutti, nel quartiere. Rosa, che non era rosa, il colore. Rosa, che era il fiore. Rosa, che in arabo si dice warda. E allora perché quella figlia arrivata dopo tanti anni d’attesa non l’avevano chiamata warda?
“E’ così bello, warda. I vecchi, appena esci di casa, te lo augurano ancora. Che il mattino abbia il profumo della rosa, ti dicono. Sabah el warda.”
“Avranno voluto fare gli occidentali a tutti i costi. Magari è il nome della protagonista di una fiction”.
Il chiacchiericcio era durato per un po’. Non c’era molto di che parlare nello hara, nel quartiere. Almeno a quei tempi. Lontani, i tempi.
A Rosa, di tutto quel parlare, glielo aveva detto Suheir, la sua zia materna.
“Pensavamo che tuo padre avesse voluto fare uno sgarbo a tutti i costi alla famiglia, ai vicini. Rompere la tradizione del nome. Metterti quel nome in inglese, in italiano, in francese. Che so io. Insomma, nella lingua di quelli che contano”.
Aveva sentito il sangue salire in faccia. Era sicura di essere arrossita dalla vergogna.
“Ma poi, come tutte le chiacchiere, erano cessate dopo poco. Ci siamo abituati. Non a te, habebti, cuore mio! Ci siamo abituati al tuo nome nuovo”.
Si era vergognata per anni di Rosa, dopo il segreto svelato da zia Suheir. Fino ad allora, il suo nome lo aveva interpretato solo come una stramberia di suo padre, uomo pieno di mille idee. Esuberante, fin troppo. Una stramberia la si può far passare però, a un padre che dà tutto se stesso. Anche se ti costringono a pronunciare lettera per lettera, per paura di sbagliarlo, quel nome. Alla posta, all’anagrafe. Rosa, che poi è così simile ad arousa, la bella ragazza, la sposa. Rosa, come Arosa, la figurina che ritraeva una bella ragazza sulla scatola gialla e rossa del tè che vendevano nei bugigattoli del Cairo e che portava in casa un amico di famiglia, di quelli che possono permettersi di passare le frontiere senza grande difficoltà. Quelli che fanno affari con tutti.
Rosa, arousa. Chissà cosa gli era passato in testa a suo padre. Magari gli era venuta in sogno proprio la figurina della scatola di tè nero.
La zia Suheir, invece, aveva complicato tutto con il suo racconto. Poteva rimanere al tempo delle stramberie di suo padre. Ora no, non più. Sua zia ci aveva messo in mezzo l’appartenenza, con il suo segreto. Papà aveva rotto il sottile velo della tradizione, con la spina di una Rosa. Ora quel nome le sembrava una colpa.
Rosa cominciò a riempire il diario di warda. Calligrafia delicata, la sua, bella. Si esercitava senza sosta su warda, anche scrivendo sul letto, prima di addormentarsi. Aveva anche cominciato a firmare come Warda Ahmed Sleimani. Ma poi le avevano detto che non era possibile. Il suo nome, quello ufficiale, era Rosa Ahmed Sleimani, senza alcuna deroga. E Rosa cominciò a odiarlo, quel Rosa. Le sue guance diventavano rosa, quando la chiamavano, di lontano. Le gocce di acqua di rose nella limonata alla menta che sua madre preparava di pomeriggio, d’estate, le provocavano una nausea incontrollabile. Chiedeva a sua madre di toglierla, l’acqua di rose, ma lei non si rassegnava. Era il legame con la parte libanese della famiglia. Non poteva, no, non poteva toglierla la goccia di acqua di rose dalla limonata alla menta. Sua figlia aveva due possibilità: non berla, oppure farsi passare la nausea. Il suo legame con Beirut non l’avrebbe rescisso. E poi, non c’erano riusciti loro, i nemici. Non ci sarebbe riuscita sua figlia!
Rosa era diventato un fantasma che incombeva nella sua giornata. I veli rosa al mercato, i quaderni rosa per le bambine, il florilegio di gomme, cancelleria, vestiti: rosa, per le bambine. Rosa, per le bambine. Rosa, e non warda. Rosa, sempre, appiccicata con la colla al suo corpo rosa. Arrossato.
Un giorno prese suo padre di petto. Non sapeva come dirglielo, che il nome, per lei, era un’offesa alla sua gente. Il frutto amaro del colonialismo. Il rigetto della propria appartenenza. Siamo nati qui, è la nostra terra. Perché non scegliere un nome semplice, bello, profumato, che sappia anche delle nostre melodie? Perché?
“Ma insomma, non mi potevi chiamare Warda? Ti dava così fastidio il mio nome in arabo?”
Suo padre la guardò, sorpreso. Niente più che sorpreso. Gli occhi annacquati del Parkinson lo avevano trasformato nell’ombra dell’uomo volitivo che la portava dappertutto, da piccola. Si faceva anche chiamare Abu Rosa, per lei. Era o no sua figlia, la primogenita? Era Abu Rosa, il padre di Rosa, anche se lei era femmina e nella tradizione lo avrebbero dovuto chiamare come il padre di Tawfiq, Abu Tawfiq, col nome del suo primo figlio maschio, il secondogenito. E lui no, testardo: io sono Abu Rosa, il papà di Rosa. Per lei, per Rosa, questo gesto rivoluzionario del padre era sempre stato motivo di vanto. Di grande orgoglio.
Il tempo, però, era passato. E ora su di lei incombeva Rosa. Il peso di Rosa.
“Ma insomma, non mi potevi chiamare Warda?”
Il padre chinò la testa, appoggiò il polso tremante e debole sul bracciolo della poltrona. Così, grande ormai, la poltrona, per contenere un corpo divenuto gracile per la malattia.
“Rosa. Sì, Rosa. Non potevo chiamarti Warda”
“Ma perché? Perché mai, padre?”
Non ce la faceva a essere arrabbiata, con l’ombra di colui che era stato il padre forte e tenero. Protettivo e felice.
“Avevo visto la sua foto. Timida, ah, com’era timida”.
“La foto di chi, papà”
“La foto di Rosa. Me l’aveva fatta vedere un mio amico italiano, quando studiavo a Perugia. Rosa, con i capelli raccolti in una crocchia, e il sorriso accennato che sembrava il sorriso della Gioconda. Speravo, per te, un futuro libero e difficile come quello di Rosa”.
“Rosa chi?”
“Una che aveva fatto la rivoluzione”.
29/9/2015, Posted in Medioriente politico – Tagged rosa, warda