Oggi la crisi della politica è la crisi della democrazia rappresentativa.
Appare sempre più difficile, se non impossibile, svolgere una funzione istituzionale (anche per mancanza di forze) capace di contrastare i poteri forti globali degli organismi internazionali quali Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea, delle multinazionali e dei grandi gruppi finanziari che insieme determinano le politiche economiche nazionali, svuotando di contenuti qualsiasi pretesa “governabilità” possibile.
L’inconsistenza delle proposte di politica economica di medio lungo termine dei contendenti e la scarsa qualità del personale politico in gara fanno il resto, cioè rendono irrilevante qualsiasi partecipazione alla corsa elettorale!
Ma i movimenti e la comunità della sinistra radicale hanno il dovere di svolgere la critica dell’esistente e mettere in moto processi di “disturbo” ed esperienze alternative al corso delle politiche attuali.
E vorremmo fare nostre le parole di Guido Viale: “Non si deve scrivere l’elenco delle cose che faremmo «se fossimo al governo». Perché al governo non ci andremo. Per ora. Il nostro compito è avvalorare e diffondere la prospettiva di una inversione radicale delle priorità, sostenerla, renderla concreta con gli esempi, individuare e affrontare gli ostacoli che si parano di fronte. Un programma di opposizione deve indicare la strada per arrivare: non al governo, ma a governarci.”
Per facilitare questa scelta abbiamo inaugurato sul blog de La città di sotto, www.lacittadisotto.org, un percorso, che chiamiamo “Per cosa votiamo” permetta di raccogliere strumenti critici capaci di diventare rivendicazioni per movimenti e comunità in lotta!
Qui presentiamo un articolo. apparso su il manifesto, nel quale si propone la reintroduzione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Riprendiamoci l’art 18. Lo reclama la maggioranza degli italiani
Lavoro. La Cgil ricorre alla Corte europea. Si potrebbe anche avviare una campagna per un nuovo referendum abrogativo, semplificato e unificante per le forze della sinistra
Mario Agostinelli, Bruno Ravasio
Il sondaggio condotto dall’Osservatorio sul Capitale sociale di Demos-Coop per Repubblica e citato nei giorni scorsi da Ilvo Diamanti, ha rilevato che il 71% degli italiani intervistati è favorevole all’ipotesi di ripristinare l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Questo dato, anche se riferito a un sondaggio, conferma che la Corte Costituzionale ha fatto un grande favore al governo Gentiloni (e ancor più a Renzi) a non ammettere – con il pretesto di un difetto di formulazione – il referendum per il ripristino dell’articolo 18 proposto dalla Cgil e sostenuto da più di un milione di firme.
Ma, ancor più, dimostra che la protervia con cui Renzi ha cancellato l’articolo 18 per i nuovi assunti, grazie anche all’acquiescenza passiva dei parlamentari del Pd compresi quelli che ora ne sono usciti, ha inferto un grave vulnus a un diritto fondamentale e come tale ancora percepito dalla maggioranza degli italiani.
Le nuove generazioni sono state private del ruolo che lo Stato – tramite la giurisdizione e la funzione autonoma della magistratura – dovrebbe avere nel controllo democratico del potere discriminatorio delle imprese ed è proprio nella vita di tutti i giorni, all’interno delle famiglie e delle comunità, che questa asimmetria di potere viene verificata e sofferta e quindi manifestata nei sondaggi, nella constatazione di un arretramento civile.
Ci si rende conto che la soppressione dell’art. 18 rafforza una prospettiva industriale ed economica del Paese in cui la competizione non vuole essere trasferita dai costi alla qualità, alla cooperazione, all’immissione di tecnologia e conoscenza diffusa: tutti temi decisivi di cui ci si riempie la bocca ad ogni aggiornamento di release dell’innovazione (siamo a 4.0!), eppure mai affrontati, perché nella quotidianità si lascia spazio e si schiaccia l’occhiolino ad un accanimento vero e proprio sul fattore lavoro.
Quindi, più passa il tempo e più è difficile rassegnarsi all’idea che una conquista di civiltà come quella contenuta nell’articolo 18, l’elemento cardine dello Statuto dei Lavoratori, abbia potuto essere abolita con tale disprezzo per lavoratrici e lavoratori e per la Cgil e con tanta superficialità e ignoranza della storia.
Una conquista che ha avuto bisogno di quasi vent’anni di battaglie, da quando Di Vittorio lanciò l’idea, alla definitiva approvazione della legge nel maggio 1970, dei morti e dei feriti negli scontri con la polizia scelbiana, di un ministro del lavoro come Giacomo Brodolini che – pur sapendo di morire – si è battuto fino alla fine per mantenere la promessa fatta ai lavoratori di Avola, nonchè della spallata decisiva delle lotte dell’autunno caldo.
Da quel giorno la vita all’interno delle fabbriche cambiò. Nulla fu più come prima: la totale subalternità dei lavoratori alle gerarchie aziendali lasciò il campo alla coscienza di sé e all’affermazione della propria dignità. E non è un caso che anche l’iscrizione (e la democratizzazione!) al sindacato ebbe una vera e proprio esplosione (vorremmo ricordarlo a quei sindacalisti della Cisl che oggi ripetono l’antico slogan di Bruno Storti: “il nostro statuto è il contratto”).
Storie di cinquanta anni fa? No, attualissime pur con le profonde trasformazioni della base produttiva oggi sempre più dissimile da quella della tradizionale manifattura. Un’area sempre più vasta, anche nelle prestazioni a tempo, ha ormai coscienza di nuovi diritti, ma non è in grado di darsi rappresentanza diretta per conquistarli. E’ costretta così a sperare in una attenzione “assistenziale” dall’esterno, magari anche da parte di un sindacato a cui partecipa per affinità, ma senza potersi organizzare da sé e farne parte attiva, attraverso rivendicazioni, riunioni o lotte impraticabili se non a costo della perdita del posto di lavoro.
Basta vedere le statistiche di questi giorni. Nei primi due mesi del 2017 i licenziamenti disciplinari sono aumentati del 30% rispetto ai primi due mesi del 2016 e del 64% sullo stesso periodo del 2015. Ma siamo solo all’inizio: man mano che aumenta la quota delle nuove assunzioni non cresce solo la percentuale di licenziamenti disciplinari, ma le iscrizioni al sindacato si riducono a zero o avvengono solo – come ci confermano gli uffici vertenze della Cgil – per l’assistenza al licenziamento.
Senza contare un effetto generale che si ripercuote su tutto il sistema dei diritti, colpendo prioritariamente le fasce non protette del lavoro precario ma arrivando a coinvolgere pure i lavoratori formalmente garantiti, in un perverso esempio di “cattiva moneta” che scaccia quella buona.
L’approvazione dello Statuto dei lavoratori rappresentò il culmine di una battaglia per l’applicazione dei principi fondamentali della Costituzione, che Vittorio Foa ha mirabilmente sintetizzato con l’immagine della «Costituzione che varca finalmente i cancelli della fabbrica». Per questo abbiamo considerato il Jobs Act come grimaldello per la revisione costituzionale tentata con il referendum.
Ma il tentativo di stravolgere la costituzione è stato sonoramente battuto, portando con sé anche la cancellazione dei voucher. A maggior ragione, ci sono oggi le condizioni per pretendere la restituzione del diritto al reintegro in caso di licenziamento ingiustificato. Non possiamo dar per acquisito che la sentenza della Corte Costituzionale ponga fine alla volontà di rimozione di quella ferita inferta a sangue freddo. Vanno bene le proposte della Cgil di un ricorso alla Corte Europea e di legge popolare per la Carta dei diritti universali del lavoro, ma pensiamo che queste stesse iniziative devono essere inserite nella richiesta “qui e ora” della restituzione dell’articolo 18.
E “riprendiamoci l’articolo 18” può diventare la parola d’ordine di sostegno di una campagna per un nuovo referendum abrogativo sulla base di un quesito semplificato, discriminante e unificante per una federazione delle forze politiche di sinistra che si oppongono alla deriva liberista del Pd renziano.
Avrebbe mandato uno sbuffo di sigaretta anche Valentino.
il manifesto, 10/5/2017