La piazza come le TV e i giornali sono terreno di scontro, l’antifascismo sembra perdere la sua funzione, sopraffatto da una “difesa istituzionalizzata” o “militante”.
Forse una riflessione sulla natura dei nuovi fascismi può aiutare a capire come affrontare la ripresa della “cultura fascista” in Italia. Qui un articolo di Marco Bascetta apparso su il manifesto in questi giorni, che affronta l’argomento partendo da un libro dello storico Enzo Traverso…
L’ansia di controllo sul corpo estraneo
«I nuovi volti del fascismo» dello storico Enzo Traverso, per ombre corte. Il postfascismo non ha alcun progetto di società futura, nessun inedito sistema sociale da proporre. Liberato dalla funzione anticomunista, si permette posture antiliberiste, antiborghesi e filo operaie
Marco Bascetta
Fascismo e antifascismo sono tornati prepotentemente in un dibattito pubblico infestato di equivoci, di retorica e di sfacciate strumentalizzazioni dei fatti di cronaca. Destra e sinistra si accusano reciprocamente di prendere di mira un bersaglio da tempo defunto, il fascismo o il comunismo (il cui spettro comincia però ad andare davvero in soffitta) con lo scopo di negare ogni legittimità all’avversario politico. E, in effetti, se consideriamo uno dei fattori determinanti della diffusione dei fascismi negli anni Venti e Trenta del Novecento la contrapposizione alla rivoluzione bolscevica e ai movimenti che vi si ispiravano, la partita, in questo inizio del XXI secolo, appare chiusa da un pezzo.
Fascismo e comunismo finirebbero, insomma, per equivalere a categorie storico-politiche come giacobinismo o sanfedismo che, sottratte al loro contesto cronologico, si limiterebbero a designare un atteggiamento mentale, un lontano sfondo ideologico, un modo di percepire la realtà circostante e di reagire alle contraddizioni che la attraversano. «La parola ‘fascismo’, a ben riflettere – scrive lo storico Enzo Traverso – si rivela più come un ostacolo che come un elemento chiarificatore della discussione» (I nuovi volti del fascismo, ombre corte, pp.140. euro 13). Come anche il termine populismo si applica infatti a un gran numero di fenomeni assai eterogenei, dalle destre radicali europee fino al cosiddetto islamo-fascismo di Daesh, definizione più emotiva che utile a inquadrare il fenomeno.
Per sottrarsi a questa confusione tra vecchio e nuovo Traverso sceglie di ricorrere al termine «postfascismo» con il quale si intende designare una discendenza dal fascismo classico che se ne è tuttavia emancipata introducendo elementi estranei a quella tradizione, senza ancora, tuttavia, cristallizzarsi in una forma politica ben definita. L’esempio cui fa più estesamente ricorso è quello del Front National che Marine Le Pen ha appunto emancipato dal puro fascismo paterno per traghettarlo verso una nuova identità politica della destra ancora in costruzione. Un analogo processo di emancipazione dalla «classicità» dell’anticapitalismo comunista e socialista lo si può del resto osservare anche a sinistra in movimenti sociali (Occupy Wall Street, Indignados, Nuit debout) e formazioni politiche (Podemos, Syriza, Linke).
Qui finisce però ogni analogia, a dispetto del tentativo dell’establishment liberista di omogenizzare tutto nel calderone del «populismo». Questi accostamenti sono favoriti dal fatto che un postfascismo liberato dalla funzione anticomunista del suo progenitore, può ben permettersi posture antiliberiste, antiborghesi e filo operaie, nonché proporsi come restauratore di un’autentica democrazia garantita dalla sovranità nazionale contro le élites transnazionali. La stessa miscela che alimenta le correnti politiche cosiddette «rosso-brune». La distanza dai fascismi del Novecento non può non accompagnarsi, tuttavia, con una qualche operazione di revisionismo storico, magari non estrema alla David Irving, ma comunque dedita a certificare errori e meriti, a spacchettare l’esperienza fascista onde poterne reimpiegare questo o quell’aspetto. Non sono rare le esternazioni di politici della destra che si propongono di salvare il fascismo dai suoi errori, occultando, per esempio, la coerenza tra l’entrata in guerra e la forma mentis stessa del fascismo.
Il fulcro dell’ideologia postfascista (condiviso però in forme più urbane e moderate anche da formazioni di centro-sinistra) è il nazionalismo riproposto nella forma dell’identità nazionale. «In fondo – avverte Traverso – ciò che interessa la destra quando parla di identità, è in realtà l’identificazione, cioè le politiche di controllo sociale adottate fin dal XIX secolo in Europa: controllo dei flussi di popolazione e delle migrazioni interne, schedatura degli stranieri, dei criminali, dei sovversivi». Temi securitari in buona parte condivisi dalle sinistre di governo europee, che virano immancabilmente verso soluzioni autoritarie. Basti pensare alle misure volute dal presidente socialista Hollande in Francia.
Quest’ansia di controllo è sostanzialmente orientata a un disegno di conservazione. Il postfascismo non ha infatti, a differenza del suo antenato novecentesco, alcun progetto di società futura, nessun inedito sistema sociale da proporre. Il suo discorso è giocato tutto sulla difensiva, sulla salvaguardia di un già noto, di una tradizione che si vuole insidiata dalla globalizzazione, dai flussi migratori, dalle influenze culturali «aliene».
Nel solco del ressentiment nietzscheano possiede una natura strettamente reattiva. Che trova terreno fertile nella paura e nell’incertezza seminate dalla crisi economica, nel vuoto politico prodotto dalla controrivoluzione neoliberista. Questa assenza di progetto consente al postfascismo di agire nella maniera più pragmatica e insidiosa discostandosi anche, quando serve, dalla stessa ideologia che professa con postmoderna spregiudicatezza. Di adattare alle circostanze date questo o quel segmento opportunamente ribattezzato dello strumentario politico fascista. La composizione sociale a cui si rivolge non è più quella omogenea e massificata del secolo scorso, ma quella frammentata, instabile ed esposta alla contingenza del mondo postfordista.
L’antifascismo, che per definizione ha anch’esso un carattere difensivo, vuoi nella forma del patriottismo costituzionale, vuoi nella salvaguardia di un sistema di valori ripetutamente proclamati, ha dunque il problema di imparare ad agire in questa stessa dimensione del post. Disporsi a combattere un preteso ritorno del fascismo più o meno classico da una posizione istituzionale e legalitaria costituisce una scelta rituale, inefficace, autoassolutoria.
Non basta il ricorso alla memoria e la pur essenziale difesa della verità storica. Senza entrare nello spazio politico del disagio sociale in cui il postfascismo e la destra estrema crescono e si sviluppano, reinventando un’ideologia autoritaria adattata alla contemporaneità, l’antifascismo resterà impastoiato tra proibizionismo ideologico e questioni di ordine pubblico.
Ma quello che si rivela ancora più pericoloso è quando le politiche governative entrano in questo spazio politico interpretandolo, come nel caso dell’immigrazione, in forme analoghe a quelle utilizzate dalla destra, imputando cioè alla eccessiva presenza del suo bersaglio, il discriminato, la responsabilità del razzismo imperante. Così come – Traverso lo spiega chiaramente – il patriottismo repubblicano in Francia è del tutto impotente a fronteggiare il Front national che lo abita comodamente, l’antifascismo rituale in Italia non è in grado di contrastare una destra xenofoba sempre più arrogante e aggressiva.
Al postfascismo si affianca infine una galassia neofascista che rivendica apertamente, talvolta più larvatamente per sfuggire alla legislazione antifascista (in Italia leggi Scelba e Mancino), una linea ereditaria che discende dal fascismo storico. Lo scioglimento di queste formazioni non ha mai impedito la loro rinascita con altre sigle e denominazioni e ha invece innescato le crociate delle destre che, sotto la bandiera della legalità, invocano ricorrentemente la messa al bando di movimenti e gruppi antagonisti che agiscono nel sociale fuori dalla sfera dei partiti.
La presenza sempre più incalzante e rumorosa della destra radicale tende inoltre a precipitare queste realtà di movimento in una intensa militanza antifascista che ne assorbe gran parte dell’energia, con quegli effetti di logoramento e impoverimento che abbiamo già avuto modo di osservare già negli anni Settanta. Come già allora la galassia neofascista non costituisce tanto una minaccia diretta quanto un fattore di condizionamento che attraverso il filtro postfascista si spinge fino all’insieme del quadro politico e in alcuni paesi, come l’Ungheria, alla stessa attività di governo.
Tuttavia, una minaccia immediata e concreta il neofascismo la esercita davvero: sulla vita quotidiana dei migranti. In numerosi paesi europei aggressioni e omicidi sono all’ordine del giorno, così come il tentativo di circoscrivere queste azioni violente alla pura e semplice sfera della criminalità o della psicopatia. Negando così l’evidenza di una fitta circolazione di temi e atteggiamenti tra queste frange estreme e il postfascismo mainstream. Nonché il vero punto di congiunzione tra tutti i fascismi vecchi e nuovi: la discriminazione e la persecuzione dell’altro, l’espulsione del corpo estraneo, lo straniero come fenomeno perturbante e un’idea di purezza che, all’occasione, trasloca dalla razza alla «identità culturale».
il manifesto, 23/2/2018