Oggi la crisi della politica è la crisi della democrazia rappresentativa.
Appare sempre più difficile, se non impossibile, svolgere una funzione istituzionale (anche per mancanza di forze) capace di contrastare i poteri forti degli organismi internazionali, delle multinazionali e dei grandi gruppi finanziari che insieme determinano le politiche economiche nazionali, svuotando di contenuti qualsiasi pretesa “governabilità”.
L’inconsistenza delle proposte di politica economica di medio lungo termine dei contendenti e la scarsa qualità del personale politico in gara fanno il resto, cioè rendono irrilevante qualsiasi partecipazione alla corsa elettorale!
Ma i movimenti e la comunità della sinistra radicale hanno il dovere di svolgere la critica dell’esistente e mettere in moto processi di “disturbo” ed esperienze alternative al corso delle politiche attuali.
E vorremmo fare nostre le recenti parole di Fausto Bertinotti: “Le sinistre politiche nascono, quando nascono, e crescono, se crescono, altrove, fuori dal campo ormai privo di autonomia reale delle istituzioni di una democrazia rappresentativa oggi politicamente compromessa e compromettente. Essa è diventata un campo minato da cui non si esce vivi o, almeno, si esce mutilati. Fuori da questo campo, e solo fuori da questo campo c’è la ricostruzione possibile e necessaria della democrazia e di una forza partecipata, radicalmente critica dell’esistente e inedita, come inedito è il nuovo terreno della contesa tra uguaglianza e disuguaglianza; una forza molteplice come molteplice è il campo delle soggettività che la coscienza dei propri bisogni e la consapevolezza dei propri desideri possono sospingere al protagonismo e alle lotte. Se vuoi dire “sinistra” e trovare un senso all’antica e ormai devastata parola, devi saperla coniugare con una rinnovata critica del capitalismo, con un rinnovato anticapitalismo, con un nuova cultura politica. Ce lo suggeriscono diversamente e pure intersezionalmente le donne di NonUnaDiMeno, come i lavoratori piacentini di Amazon, come i ciclofattorini belgi della Deliveroo, come mille altre storie che ci restano colpevolmente sconosciute.”
Per contribuire a rendere possibile questo agire politico, sul blog de La città di sotto abbiamo scelto di affiancare, alla rubrica “Per cosa votiamo” quest’altra che chiameremo “I nostri compiti politici”, nella quale vorremmo raccogliere voci che ci possano aiutare a rispondere alla fatidica domanda: “che fare?”. Altre occasioni che possono divenire pratica politica per movimenti e comunità in lotta!
Qui di seguito riportiamo un testo apparso su il manifesto che ci aiuta ad affrontare un nuovo tema che della contrattazione del lavoro: il controllo dell’algoritmo sul quale sono i fissati i parametri dei tempi e dei modi della produzione e della distribuzione.
Autodifesa digitale e cura del sé
“Gruppo Ippolita”
Viviamo sempre più in uno stato di rimozione permanente della realtà. Nella sovrapproduzione di oggetti, manufatti e servizi più o meno tecnologici risulta ancora più difficile avere una cognizione di quello che ci succede attorno non mediata, non edulcorata. Non siamo neanche più in grado di sapere cosa vogliamo o comprendere da dove arrivano i nostri desideri. Sempre innamorati dell’ultima innovazione, giriamo a vuoto sull’ultimo carosello di noi stessi.
Autopromozione
Quasi nessuno si chiede da dove vengono e come sono stati prodotti i nostri oggetti di consumo.
Le fabbriche sono scomparse da tempo dalle nostre periferie (o così pensiamo, salvo ricordarci che esistono ancora quando avviene qualche incidente sul lavoro). Sono letteralmente in un «altrove» fantasmatico. Parallelamente, ci affidiamo agli algoritmi delle nostre piattaforme preferite perché ci dicano cosa leggere, cosa ascoltare, a chi dare retta, con chi uscire. Non abbiamo neanche più bisogno di riversarci nelle cattedrali della grande distribuzione per consumare, più o meno tutto ci può arrivare direttamente a casa, basta ordinare, basta un’app.
La nostra vita è essenzialmente dedita al consumo: il nostro stesso essere on-line è possibile solo grazie ai costosi device prodotti nel sud-est asiatico (dei cui lavoratori sembra non ci interessi nulla), all’uso di corrente elettrica e alla banda fornita da qualche provider. Quello che produciamo a confronto è davvero poco: qualche condivisione, qualche commento, dati e metadati, certamente, ma che rendiamo possibili principalmente in quanto consumatori di piattaforme.
In questo scenario appare chiaro come la cosiddetta sharing economy non descriva nient’altro se non un ulteriore stile di consumo, incapace di mettere in discussione l’ordine del discorso neoliberista. Dopo decenni di cultura di massa basata sulla pretesa della crescita infinita, i protagonisti della tecnologia commerciale hanno avuto vita facile per allacciare e assuefare la nuova massa di utenti al gioco senza fine della promozione di sé (o self-branding).
Imprenditori gamificati
Il rimosso di questa situazione è che per partecipare a questo gioco dobbiamo essere tutti consumatori seriali, nel mercato on-line. Solo così possiamo sottoporci volontariamente (ma inconsapevolmente) all’addestramento della logica performativa dell’anarco-capitalismo trionfante. Attraverso la nostra dedizione siamo esposti alle pratiche di gamificazione, attive nei social network e ovunque ci sia interazione. Le modalità premiali e gli schemi tipici dei giochi competitivi, sviluppati nella progettazione e realizzazione di piattaforme digitali, ci portano a pensare e agire in termini di classifica, di punteggio e di misurazione (più contatti, più interazioni, più like!). E così, inseguendo la chimera della meritocrazia, ci trasformiamo in imprenditori di noi stessi.
L’etica è un esercizio
Come uscirne? Se osserviamo quanto la tecnica sia ormai onnipervasiva e quanto largamente siamo soggiogati da dinamiche di delega a essa, possiamo dire che siamo al sorgere di un regime tecnocratico. Tuttavia l’essenza della tecnica è socio-politica e culturale. Riflettere sulla tecnica vuol dire riflettere su quello che siamo. Se è così allora si apre un ventaglio di possibilità e di azioni. Una di queste è la pedagogia hacker, che consiste nel mutuare dalla figura dell’hacker la sua particolare attitudine: la voglia di scoprire, conoscere e porsi domande sull’ambiente in cui ci si trova. E quando si presenta un problema lavorarci sopra per cercare di risolverlo.
È una possibilità interessante: se il senso comune basato sulla ragione strumentale, lo sfruttamento e il consumo plasmano un individuo che si pensa imprenditore di sé stesso, allora dedicarsi alla formazione di sé attraverso l’esercizio etico vuol dire fare un hacking in senso individuale e collettivo
delle norme anarco-capitaliste che ci agiscono, in quanto la cura del sé non è disgiunta dalla cura, della comunità.
il manifesto, Alias, 3/2/2018